La degradazione del permafrost nelle Alpi è più rapida (e preoccupante) del previsto
Il permafrost delle montagne europee sta subendo un riscaldamento senza precedenti. Il permafrost montano, che costituisce il 30% del totale, è molto sensibile ai cambiamenti climatici e la sua degradazione ha degli impatti sostanziali sugli ecosistemi montani e sulle comunità che li abitano. Ecco cos'è emerso dal primo studio su scala europea ad analizzare un numero così elevato di stazioni di misura (con 64 perforazioni tra Alpi, Scandinavia, Islanda e Sierra Nevada)
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Il permafrost montano, che costituisce il 30% dell'area globale di permafrost, è molto sensibile ai cambiamenti climatici e la sua degradazione (all'atto pratico, il suo riscaldamento) ha degli impatti sostanziali sugli ecosistemi montani e sulle comunità che li abitano.
Un nuovo studio pubblicato su Nature Communications e condotto da un team internazionale di ricercatori rivela che il permafrost delle montagne europee sta subendo un riscaldamento senza precedenti. Lo studio (che si trova qui) ha analizzato dati di temperatura provenienti da 64 perforazioni distribuite tra le Alpi, la Scandinavia, l'Islanda e la Sierra Nevada.
I risultati sono allarmanti: a una profondità di 10 metri, il tasso di riscaldamento ha superato in alcuni casi 1°C per decennio nel periodo 2013-2022, un valore che eguaglia quelli registrati nelle regioni artiche, notoriamente più vulnerabili ai cambiamenti climatici.
Questa ricerca rappresenta il primo studio su scala europea ad analizzare un numero così elevato di stazioni di misura del permafrost montano. Tra gli enti coinvolti figurano anche le Agenzie Regionali per la Protezione Ambientale (Arpa) di Piemonte, Valle d’Aosta e Veneto, a conferma della rilevanza dei risultati per le montagne italiane.
Il permafrost, costituito da terreni, detriti o rocce che mantengono temperature inferiori a 0 °C per almeno due anni consecutivi, è un elemento fondamentale per la stabilità dei versanti montuosi e per l'equilibrio degli ecosistemi alpini. Il suo rapido riscaldamento potrebbe avere implicazioni dirette sulla sicurezza delle infrastrutture e sulla frequenza di frane e crolli rocciosi.
Dai dati emerge che il riscaldamento non è uniforme: è più intenso nei primi 10 metri di suolo e diminuisce a profondità maggiori. Questo perché il calore superficiale impiega tempo a propagarsi in profondità. Inoltre, il tipo di terreno gioca un ruolo cruciale: i siti con rocce più fredde e povere di ghiaccio si scaldano più velocemente rispetto alle aree ricche di ghiaccio e con temperature vicine allo zero. Il ghiaccio, infatti, assorbe parte del calore durante la fusione, rallentando temporaneamente l'aumento delle temperature. Tuttavia, una volta che il ghiaccio si è fuso, il riscaldamento accelera drasticamente.
Le conseguenze della degradazione del permafrost sono molteplici. Oltre all'aumento del rischio di frane e crolli, la perdita di permafrost ha delle implicazioni sul regime idrico delle montagne, con impatti sulla disponibilità di acqua per i bacini idrografici e sulle attività umane a valle. Inoltre, i cambiamenti nella stabilità del terreno potrebbero minacciare infrastrutture strategiche come rifugi alpini (ne parlavamo qui e in questo articolo), impianti sciistici e vie di comunicazione.
Lo studio sottolinea la necessità di un monitoraggio a lungo termine del permafrost per valutare l'impatto del cambiamento climatico. La raccolta di dati in alta montagna è un'attività complessa e costosa, ma essenziale per comprendere e affrontare le sfide poste dal riscaldamento globale, e per questo motivo collaborazione tra istituzioni scientifiche e enti territoriali, come le Arpa italiane, ma anche gli operatori sul territorio, è utile per garantire un'osservazione continua e sviluppare strategie di adattamento efficaci.