L’albero “generoso” amato dai contadini, ormai quasi scomparso a causa di un fungo asiatico
Alberi dimenticati #03 / ForestPaola ci conduce alla scoperta di una specie un tempo molto diffusa nelle campagne ai bordi dei campi agricoli e protagonista di uno speciale "matrimonio"
L’olmo campestre è sicuramente uno dei miei alberi preferiti: sarà che può raggiungere i 30 m di altezza e i 600 anni, o che ha una foglia inconfondibile, essendo non simmetrica all’attacco del picciolo e quindi… “imperfetta”, come me.
Il suo nome scientifico è altrettanto simpatico perché l’epiteto minor, associato ad Ulmus, è determinato dalle foglie più piccole in dimensioni rispetto all’olmo montano; il suo frutto, una samara rotonda, quando ancora non è matura (ed ha quindi una colorazione verde acceso) è buonissima da sgranocchiare; inoltre, la verdissima samara compare sulla chioma dell’albero a inizio primavera prima dell’emissione delle foglie: una caratteristica inequivocabile che aiuta a riconoscere gli olmi a prima vista. E anche i suoi rametti sono curiosi, essedo ricoperti da particolari (e buffe) “creste” suberose.
Ma forse il motivo principale del mio amore per questa specie è la sua storia: un albero che per secoli ha caratterizzato le campagne italiane, soprattutto le zone di pianura, dove veniva piantato in filari a delimitare le proprietà, ma anche utilizzato per creare cesti o utensili della quotidiana vita contadina e potato per creare frasche utili a nutrire il bestiame. Insomma un albero generoso, ristoratore dal sole cocente nelle pause del duro lavoro umano e animale, simbolo di un’economia rurale ormai scomparsa.
E proprio come questa vita è scomparso anche lui dal paesaggio, annientato da un fungo, Ophiostoma ulmi, proveniente probabilmente dall’Asia, che nel periodo fra le due guerre mondiali iniziò a colpire questo genere di piante (il genere Ulmus) in tutta Europa e Nord America. Solo le specie di olmo provenienti dal continente asiatico sono apparse più resistenti, essendo abituate da sempre a convivere con questo patogeno.
Ma come è possibile che un fungo uccida un albero gigantesco? Penetrando nel fusto grazie all’azione di insetti scolitidi, Ophiostoma ulmi si inserisce infatti nei vasi che trasportano la linfa grezza e ne blocca il passaggio, determinando quindi una defogliazione primaverile e un disseccamento rapido della chioma. In breve tempo la pianta secca e muore.
Intorno al 1967, a voler peggiorare le cose, è giunto dal Nord America un ceppo ancora più virulento che ha pressoché annientato i soggetti adulti e vecchi dell’olmo campestre. Sì perché l’olmo campestre non è proprio totalmente scomparso, i giovani individui infatti sembrano resistere all’attacco fungino, ma nel momento in cui aumentano le loro dimensioni, del tronco e della chioma e di conseguenza dei vasi di comunicazione della linfa, il fungo si insinua con maggior facilità e uccide l’ospite.
Dal 1967, in vent’anni circa, morirono milioni di olmi, determinando un repentino cambio di paesaggio in pianura e collina: è per questo che sogno ancora un giorno di potermi riposare sotto la sua chioma, godendo della sua fresca ombra nei primi caldi primaverili.
Un sogno che grazie alla ricerca scientifica di varietà più resistenti potrebbe diventare una realtà. Nel frattempo, vado e vago nelle campagne alla ricerca silenziosa (neanche troppo!) di un altro antico utilizzo di questa pianta: l’olmo campestre infatti, assieme all’acero campestre, serviva a sostenere le viti, e per questa funzione si diceva che la vite era “maritata” all’olmo (o all’acero).
Uno dei matrimoni più belli che ho mai visto in vita mia!
Dottoressa forestale libera professionista e Accompagnatrice di territorio del Trentino.
Nata a Firenze, vive in Trentino nella piccola Valle dei Mòcheni. Qui si occupa di boschi 365 giorni all'anno, per questo tutti ormai la chiamano solo "Forest".
Racconta la sua vita nella media montagna, il suo duplice lavoro di dottoressa forestale e di divulgatrice ambientale, il tutto sempre con un sorriso.