Fra debolezza e connivenza, la ritirata dello Stato italiano: da Nitti a Facta, i liberali spianano la strada ai fascisti
Dalla sua comparsa sull’arena politica nazionale alla presa del potere dell’ottobre ’22, il fascismo si mosse in un’Italia governata da diversi esecutivi liberali. Deboli, permissivi, succubi di un movimento ormai ampiamente appoggiato anche da larghi settori dello Stato, questi governi favorirono la diffusione e la legittimazione dello squadrismo. Continua la rubrica “Cos’era il fascismo”
TRENTO. Dal 1919 al 1922, lungo la via che ha visto il fascismo arrivare al potere, diversi furono gli esecutivi che si avvicendarono alla guida del Paese. Incapace di far fronte alle istanze di democratizzazione della società, ostaggio della violenza squadristica, lo Stato liberale crollerà dopo mesi e mesi di turbolenze. Ma quale fu l’atteggiamento dei diversi governi nei confronti del montante fascismo?
Se da una parte consistenti settori dello Stato liberale, su tutti i prefetti, la magistratura e le forze dell’ordine, manifestarono progressivamente il loro appoggio al fascismo, l’atteggiamento delle forze politiche liberali – protagoniste della politica italiana dall’Unità in poi – si svilupperà in maniera ben più problematica. Da Nitti a Facta, infatti, svariati (oltre che timidi) furono i tentativi – sempre vani - di porre argine alla violenza incontrollata.
Ma oltre all’azione governativa debole, incapace di dare una svolta all’indirizzo politico nazionale, profonde furono le responsabilità dei vecchi liberali nello spianare la strada al fascismo. Celebre è ad esempio la posizione dell’intellettuale Benedetto Croce, filosofo liberale che appoggiò Mussolini anche dopo il delitto Matteotti (estate 1924)– voterà la fiducia al governo sostenendo che il fascismo, su cui i liberali avrebbero potuto operare in senso normalizzatore, avesse il merito di dare stabilità ad un Paese in crisi, animato dall’amore di patria e dalla volontà di restaurare l’autorità dello Stato.
Gli eventi successivi, con lo smantellamento dell’impalcatura liberal-democratica, convinceranno Croce dell’errore interpretativo. La sottovalutazione del pericolo eversivo rappresentato dai fascisti, d’altronde, qualche anno prima aveva spinto il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, decano della politica italiana, a includere nei listoni del Blocco nazionale lo stesso movimento dei Fasci, illudendosi di poterli così riassorbire nel sistema democratico. Anche in questo caso, nondimeno, la storia dimostrerà il contrario.
Nato nel marzo del 1919 (QUI l’articolo), il movimento dei Fasci italiani di combattimento muove i suoi primi passi in un’Italia scossa dalle agitazioni politiche e sociali. Formatosi nel “brodo di coltura” del futurismo, dell’arditismo e del reducismo nazionalista, il fascismo farà propria una concezione conflittuale della politica, portando di fatto le trincee e la mentalità nata sui campi di battaglia della Grande Guerra in politica interna. Le squadre d’azione furono a riguardo le interpreti d’eccezione, protagoniste assolute di uno scontro votato all’azione e all’annichilimento del nemico, fosse esso socialista, anarchico, repubblicano o cattolico.
Quando i Fasci fecero il loro ingresso in politica, il governo in vigore era guidato dal liberale Vittorio Emanuele Orlando, dimessosi a fine giugno per i disastrosi esiti della Trattative di pace di Parigi. Fino al giugno successivo, in una fase della storia fascista segnata comunque da un carattere ancora elitario del movimento, a presiedere il governo ci fu invece il radicale Francesco Saverio Nitti. Profondamente odiato dalle forze nazionali per la gestione della questione fiumana – Gabriele D’Annunzio coniò per lui il soprannome “Cagoja” – dovette cedere su un decreto di rincaro del prezzo del pane, lasciando spazio a Giolitti.
Fu proprio il navigato politico piemontese, come detto, a spianare la strada al fascismo, imbarcandolo nella coalizione del Blocco nazionale. Ancor più, d’altro canto, Giolitti favorì il movimento fascista tollerando ampiamente la violenza delle squadre, dilagata, a partire dall’autunno del 1920, nelle campagne di Emilia-Romagna e Toscana. Legittimato dall’alleanza elettorale coi liberali, il braccio armato del fascismo sfrutterà le sconfitte e le divisioni nel campo socialista proponendosi come l’interprete della reazione borghese al protagonismo delle masse lavoratrici.
Preoccupato da una possibile degenerazione dello scontro politico e sociale in una guerra civile, il suo successore Ivanoe Bonomi, proveniente dall’area del socialismo riformista, tentò la carta della mediazione attraverso il cosiddetto “patto di pacificazione” dell’agosto 1921 (QUI l’articolo). Scrive a riguardo lo storico Mimmo Franzinelli in Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista. 1919-1922: “Nell’impossibilità di fronteggiare la violenza politica, il presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi provò la carta della pacificazione mediante un’intesa tra fascisti e socialisti. Il tentativo, affidato nel luglio ’21 alla mediazione del presidente della Camera Enrico De Nicola, era un’implicita ammissione dell’incapacità di imporre il rispetto dell’ordine democratico”.
“L’impostazione governativa avallò i presupposti politici del fascismo e giustificò lo squadrismo come risposta a un oggettivo stato di necessità. Gli «Appunti per la conversazione con i giornalisti» redatti a metà luglio documentano lo spirito con cui Bonomi predispose l’operazione, con piena comprensione della «diffidenza che l’elemento fascista ha verso i socialisti, poiché teme che il deporre le armi sia destinato a veder subito risorgere la prepotenza delle organizzazioni rosse». L’accordo, a quel momento in via d’elaborazione, prefigurava l’isolamento dell’estrema sinistra”.
Rifiutato da comunisti, anarchici e Arditi del popolo, l’accordo rispose alla strategia mussoliniana di sottrarre il fascismo a un eventuale isolamento, dopo episodi, come quello di Sarzana (QUI l’articolo), che avrebbero potuto alienare le simpatie dell’opinione pubblica borghese. Di contro alle sue aspettative, però, il patto provocherà la parallela reazione dello squadrismo, a dimostrazione dell’influenza che l’ala intransigente ormai aveva nel movimento. Osteggiato, contestato e ampiamente disatteso, l’accordo fu ufficialmente sconfessato dai Fasci nell’autunno di quell’anno – spingendo il fascismo, dopo mesi di turbolenze, a trasformarsi in partito (QUI l’articolo).
Ricominciò, a quel punto, l’atteggiamento sull’ordine pubblico a cavallo fra permissivismo e rispetto della legge da parte di un governo Bonomi ormai avviato verso la sua fine, giunta a febbraio del ’22. Ogni disperato tentativo di neutralizzare gli eccessi fascisti, come nel caso della circolare prefettizia con cui s’equiparava il manganello alle armi e si includevano le squadre d’azione fra le formazioni illegali, venne automaticamente frustrato da un fascismo ormai troppo forte, influente e fiancheggiato – se non contaminato – dalle forze dello Stato.
Ancor prima della sua istituzione in Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (QUI l’articolo), arrivata con il fascismo già al potere, di fatto lo squadrismo s’era fatto Stato, legittimato da ampi settori dell’apparato statale e dalle classi dirigenti. Non è un caso che questo ruolo gli fosse riconosciuto alla proclamazione dello sciopero legalitario da parte dell’Alleanza del lavoro a fine luglio del 1922. Di fronte al dilagante illegalismo fascista (QUI un esempio), l’unione fra sindacati e organizzazioni delle sinistre aveva deciso di incrociare le braccia fino a quando lo Stato non si fosse deciso a muoversi. La cosa fu abilmente sfruttata dal fascismo, che fece leva sul ritorno dello spettro bolscevico per presentarsi all’opinione pubblica come l’unica forza in grado di garantire l’ordine.
Debole, indeciso e succube di uno squadrismo ormai sempre più sostenuto dai funzionari dello Stato, il liberale Luigi Facta – dimessosi poco prima della proclamazione dello sciopero – tornerà alla guida di un altro effimero esecutivo proprio nei giorni della travolgente ondata fascista (QUI l’articolo). In alcune città, ad esempio Bari, i ras si poterono addirittura permettere di ricattare prefetto e forze armate affinché intervenissero contro i “sovversivi”. Facta, ormai sopraffatto, tenterà inutilmente di ottenere dal re, nei giorni della marcia su Roma, la proclamazione dello stato d’assedio. Vittorio Emanuele III, nonostante la maggiore forza militare a disposizione, aveva però già deciso: Mussolini e i fascisti avrebbero dovuto prendere il potere.