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“Troveremo tutti i mezzi per sabotarli”: la “guerra” fascista ai neutralisti e la Fondazione dei Fasci di combattimento

Il 23 marzo 1919, in piazza San Sepolcro a Milano, nacquero i Fasci di combattimento. Il primo nucleo del fascismo, il cui programma conteneva non poche istanze di rinnovamento sociale, economico e politico, era composto da Arditi e futuristi. Le scarse fortune, però, lo avrebbero spinto a compiere una svolta. Prosegue la rubrica "Cos'era il fascismo"

Foto tratta dal web
Di Davide Leveghi - 20 marzo 2022 - 11:22

Noi andremo a vedere i passaporti di tutta questa gente: tanto dei neutralisti arrabbiati come di coloro che hanno accettato la guerra come una corvée penosa; andremo nei loro comizi, porteremo dei candidati e troveremo tutti i mezzi per sabotarli” (Benito Mussolini, "Discorso di Fondazione dei Fasci di combattimento", Il Popolo d’Italia)

 

Addosso alle vecchie congiure pussiste e giolittiane camuffate di umanità! Fiuto odore imminente di polvere. L’anima esplosiva che rugge in noi, nostalgici guerrieri, è scossa da una grande speranza di lotta” (da una lettera dell’ardito Mario Carli a Benito Mussolini, marzo 1919)

 

TRENTO. Soluzioni per il “problema politico”, quello “sociale”, quello “militare” e quello “finanziario”. Suffragio universale, collegi nazionali del lavoro, convocazione di una costituente, paga minima garantita e 8 ore lavorative. E ancora: sequestro di tutti i beni delle congregazioni religiose e imposta sui grandi capitali, ma soprattutto l’istituzione di una milizia nazionale ed una “politica estera nazionale intesa a valorizzare nelle competizioni pacifiche della civiltà la nazione italiana nel mondo”.

 

Sono queste alcune delle richieste avanzate nel programma di San Sepolcro, linee programmatiche di un movimento, quello fascista, formalmente nato nel marzo del 1919. È il 23 marzo, quando nella piazza milanese, si tiene l’adunata che dà i natali ai Fasci italiani di combattimento. Benito Mussolini, ex leader socialista cacciato dal partito per la sua scelta interventista, cerca di aggruppare attorno a sé gli ambienti favorevoli al conflitto e lo fa ammiccando alle classi lavoratrici.

 

Protagoniste del grande conflitto appena concluso, dovranno esserlo – per Mussolini e i suoi – anche in futuro, in un mondo rigenerato dalla violenza creatrice di un nuovo ordine. Al Paese, agli occhi dell’irrefrenabile politico romagnolo, serve una rivoluzione capace di costruire un’Italia nuova, degli italiani nuovi, e per farlo il soggetto politico perfetto deve rompere con la realtà precedente: è il movimento dei Fasci, l’anti-partito, che pesca fra i reduci, mobilita gli scontenti, grida battaglia ad una politica decadente, polverosa, ottocentesca. Un’avanguardia, dunque, le cui linee programmatiche ben presto si dimostreranno fluide e rimpiazzabili, intercettando esigenze più alte, quelle delle classi dirigenti e del richiamo all’ordine.

 

Scrive Emilio Gentile in Fascismo. Storia e interpretazione: “Il fascismo ‘diciannovista’, come venne poi definito, si proclamava pragmatico e antidogmatico, anticlericale e repubblicano; proponeva riforme istituzionali, economiche e sociali molto radicali. I fascisti disprezzavano il Parlamento e la mentalità liberale, esaltavano l’attivismo delle minoranze, praticavano la violenza e la politica della piazza per sostenere le rivendicazioni territoriali dell’Italia e per combattere il bolscevismo e il Partito socialista”.

 

Gli inizi del movimento sono pertanto stentati e marginali. Continua Gentile: “Per tutto il 1919 e gran parte del 1920, tuttavia, il fascismo rimase un movimento trascurabile nonostante l’attivismo e la campagna a sostegno dell’impresa di Fiume, iniziata nel settembre 1919, quando Gabriele D’Annunzio occupò la città per rivendicare la sua annessione all’Italia. Nel primo congresso nazionale dei Fasci (Firenze, 9-10 ottobre 1919) gli iscritti erano poche centinaia, sparsi nell’Italia settentrionale, con rarissime presenze nell’Italia centrale e nel Sud. L’insuccesso del movimento fu confermato dalla disfatta nelle elezioni politiche del novembre 1919: alla fine dell’anno, in tutta Italia, si contavano 37 Fasci con 800 iscritti. Dopo la sconfitta elettorale, il fascismo iniziò un cambiamento di rotta, che fu sancito al congresso nazionale di Milano (24-25 maggio 1920), abbandonando il programma radicale del 1919 per riproporsi, con una conversione a destra, come organizzazione politica della borghesia produttiva e dei ceti medi che non si riconoscevano nei partiti tradizionali e nello Stato liberale. La svolta a destra provocò la rottura con i futuristi, con gli arditi e con D’Annunzio…”.

 

Prima di quella svolta, definitiva, verso un programma più conservatore, il fascismo venne ad aggregare forze politiche e culturali elitarie. La sua impronta, sin dagli esordi, è il ricorso alla violenza, fatta di “iniziative non metodiche né generalizzate, testimonianza di un sovversivismo concorrente ed alternativo a quello filobolscevisco” (Franzinelli, Squadristi). Una violenza, appunto, esercitata anche simbolicamente da manipoli di uomini, come nelle piazze del 1914-15.

 

“Inizialmente la violenza fu esercitata da pochi temerari, legati da spirito di gruppo, armati di bastoni, rivoltelle e bombe a mano, schieratisi in un rapporto di uno a cento dinanzi a maree di manifestanti sventolanti bandiere rosse – spiega Mimmo Franzinelli nel suo imprescindibile volume sullo squadrismo – l’aggressione a folle di socialisti si configurava come una provocazione anche sul piano culturale, contrapponendo al rivoluzionarismo internazionalista uno sciovinismo sfegatato”.

 

Le fondamenta di questo modo di pensare la politica, dunque, vennero gettate dai futuristi. Furono loro ad esaltare la temerarietà e la violenza, la logica di dominio e il disprezzo delle masse. A fornire loro la manovalanza necessaria, invece, ci pensarono gli Arditi, forgiati nelle trincee, pronti con i loro pugnali a imporsi come “vera avanguardia della nazione”. Nei mesi a venire, prima della svolta verso l’ordine, fu questa l’amalgama che formava i Fasci di combattimento e che, come vedremo più avanti, si distinse nelle piazze del Nord Italia.   

 

A posteriori, dunque, non sono tanto i punti del programma di San Sepolcro ad emergere nei discorsi inaugurativi dei Fasci. È semmai il carattere nuovo del movimento: “Il punto vero e sostanziale non è il programma, che il movimento abbandonerà presto (nessuno di questi punti entrerà nel programma politico, nel novembre 1921) – commenta lo storico David Bidussa nel suo Me ne frego – il punto vero è quello al centro del primo discorso, ovvero la presentazione dell’esuberanza come profilo identitario, come ideologia del nuovo contro il vecchio, della smania di fare e dunque della necessità di prendere il potere come diritto al futuro contro le strettoie del presente”.

 

Ma a cosa si riferisce Bidussa? Nello specifico, la prima dichiarazione centra il cuore di quello che sarà il fascismo, spogliato delle sue istanze sociali ed intrecciatosi con la reazione al protagonismo delle masse. “Ebbene la guerra si accetta in blocco o si respinge in blocco – scriveva Mussolini all’indomani dell’adunata del 23 marzo – e, volendo del resto esaminare la situazione nei suoi elementi di fatto, noi diciamo subito che l’attivo e il passivo di un’impresa così grandiosa non può essere stabilito con le norme della regolarità contabile: non si può mettere da una parte il quantum di fatto e di non fatto: ma bisogna tener conto dell’elemento «qualitativo». Da questo punto di vista noi possiamo affermare con piena sicurezza che la Patria oggi è più grande […] è più grande perché noi ci sentiamo più grandi in quanto abbiamo l’esperienza di questa guerra, inquantoché noi l’abbiamo voluta, non c’è stata imposta, e potevamo evitarla”.

 

La guerra, nonostante i costi, è stata vinta e la “grandezza della patria” ne ha beneficiato. La guerra, soprattutto, ha trasformato il mondo e l’Italia, conscia di ciò, dovrà assumersi la storica missione di trovare il proprio spazio, di costruirselo. È qui, nel rinnovato imperialismo, nell’attivismo interno e internazionale, nel protagonismo di un movimento che si sente erede della guerra ed avanguardia, che il fascismo comincia a costruirsi il proprio ruolo sullo scenario nazionale. Ogni istanza sociale, al momento, è contingenza, ammiccamento opportunistico non tanto alle élite – politiche e culturali - che per la guerra si sono spese, ma per i combattenti delusi dal mancato rinnovamento politico e sociale che la guerra avrebbe potuto produrre.

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