Quando Mussolini cercò di fermare le violenze squadriste: cento anni fa il "Patto di pacificazione" con i socialisti
L'estrema violenza scatenata dallo squadrismo nel 1921 rischiò di isolare il fascismo dai suoi sostenitori. Per questo Mussolini e altri dirigenti del movimento cercarono, su richiesta del governo Bonomi, di arrivare a patti con i socialisti, provocando l'insurrezione dei più intransigenti. Continua la rubrica "Cos'era il fascismo"
“Tutto quello che è accaduto in questi ultimi tempi è una piccola commedia politica che si innesta in una grande tragedia nazionale e umana […] il Fascismo esce da questa prova sconfitto. La partita è ormai chiusa. Chi è sconfitto deve andarsene, ed io me ne vado dai primi posti. Resto e spero di poter restare semplice gregario del Fascio milanese” (Benito Mussolini, da Il Popolo d’Italia dell’1 agosto 1921)
TRENTO. Di fronte alla veemente reazione degli squadrismi regionali, Benito Mussolini decise di giocarsi una carta clamorosa: la proposta di dimettersi. La ragione stava negli aspri dissidi scoppiati all’interno del movimento a causa dell’imminente accordo – promosso dal governo Bonomi – con i socialisti, passato alla storia come “Patto di pacificazione”. Puntando sulla mediazione del presidente della Camera Enrico De Nicola, il presidente del Consiglio aveva cercato così di porre fine alle violenze, ammettendo di fatto l’incapacità della autorità liberali di far rispettare l’ordine democratico (Mimmo Franzinelli).
Era l’inizio d’agosto del 1921 e l’eco dei fatti di Sarzana era ancora fresca. Nel centro della Lunigiana, i fascisti, riunitisi in gran massa di fronte alla stazione, si erano affrontati a fucilate con le forze dell’ordine, per una volta poco propense a piegarsi alle inaccettabili condizioni imposte dagli squadristi – i quali chiedevano la scarcerazione del ras di Carrara Renato Ricci, arrestato qualche tempo prima, e “carta bianca” contro i socialisti, forza preponderante nella zona, ottenendo però un netto diniego (QUI l’articolo).
L’accordo, nell’aria già dalla metà di luglio, prevedeva la “deposizione delle armi” da parte di squadristi e socialisti, con la richiesta di un generico impegno alla rinuncia della violenza – la cui bilancia, peraltro, pendeva nettamente dalla parte fascista (QUI l’articolo). Di fatto, esso prefigurava l’isolamento dell’estrema sinistra: non solo infatti comunisti e anarchici opponevano il proprio rifiuto a venire a patti coi fascisti e le autorità liberali, giudicate passive se non conniventi di fronte alle brutalità nere, ma anche richiedeva ai socialisti l’abiura nei confronti degli Arditi del popolo, braccio armato dell’antifascismo a difesa dei lavoratori.
Se da parte socialista, dunque, la scelta del partito – non seguita nemmeno da popolari e repubblicani – finì per indebolire lo schieramento antifascista, in quello opposto non mancarono certo le vigorose reazioni d’opposizione all’accordo. Da qui, appunto, la clamorosa scelta di Mussolini di presentare le sue dimissioni. Ma perché egli si spinse a tanto e quali furono le conseguenze?
Alle notizie dell’accordo, nel movimento fascista sorsero delle immediate reazioni tra gli squadristi ortodossi. Sarzana aveva già fatto scattare le vibranti proteste del fascismo più intransigente, che, nonostante il sangue versato e le inquietudini provocate tra i fiancheggiatori del movimento (industriali e borghesi su tutti), finì comunque per ottenere soddisfazione – la città fu commissariata, umiliata e privata di diversi privilegi, i detenuti scarcerati.
Nondimeno, destava grande malumore l’idea di fermare la decisiva offensiva contro i giurati nemici socialisti. L’ala militare pretendeva di proseguire nel suo protagonismo, anche a costo di isolare il movimento dai suoi sostenitori. E proprio per questo Mussolini, così come altri importanti membri della parte politica, cercarono di imporre il proprio controllo. Scrive lo storico Franzinelli in Squadristi: “La consuetudine squadristica – divenuta un vero e proprio abito mentale – aveva sostituito l’azione di forza alla mediazione politica, l’arroganza della sopraffazione al metodo del confronto. La crescita esponenziale delle squadre e i notevoli successi ottenuti dalla fine del 1920 spingevano molte camice nere su una strada senza ritorno, con due possibili sbocchi: la presa del potere o la disfatta militare”.
“All’intento mussoliniano di servirsi della violenza secondo dosature accorte, subordinate a un preciso calcolo politico di convenienza, corrispondeva da parte dello squadrismo la disponibilità a scavalcare il capo qualora egli persistesse nell’accordo col nemico – continua – a spingersi più innanzi sul cammino della rottura furono i fasci del Polesine, dell’Emilia e della Puglia, che in agosto – sconfessato il trattato – intensificarono l’attività paramilitare. L’aspro scontro minacciò di risolversi in una spaccatura mortale per il movimento cresciuto tumultuosamente in una decina di mesi, sino a farsi arbitro della politica nazionale”.
La paura di vedersi relegare in secondo piano spinse così le componenti più intransigenti del movimento a manifestare la propria contrarietà all’accordo, firmato nella giornata del 3 agosto 1921 da alcuni dei più eminenti esponenti del Consiglio nazionale dei fasci, dei gruppi parlamentari fascista e socialista, dei dirigenti del Psi e della Confederazione generale del lavoro. A metà agosto, oltre 500 sezioni dei fasci si riunì a Bologna per ribadire la propria opposizione. Così fecero anche Italo Balbo da Ferrara e Pietro Marsich da Venezia, mentre in Toscana, sorprendentemente, la tregua trovò l’appoggio perfino di alcuni dei più scalmanati rappresentanti dello squadrismo locale.
Fu proprio a Firenze, sede scelta per il congresso nazionale dei fasci, a fine agosto, che si consumò un'importante tappa per i destini del fascismo. In un clima infuocato, con la città tappezzata di manifesti piuttosto chiari sulla predisposizione squadrista a venire a patti coi socialisti, la proposta di dimissioni di Mussolini fu respinta, mentre venne accettata quella del suo braccio destro Cesare Rossi, vicesegretario dei Fasci da combattimento. Il ruolo di guida del movimento, di “duce del fascismo”, del maestro predappiese aveva sì tremato ma la sua autorevolezza (riconosciuta dal movimento) da una parte e la debolezza dei ras locali dall’altra non poté che determinare la riconferma al comando (QUI un approfondimento sul mito di Mussolini).
Gradualmente, d’altronde, lo stesso atteggiamento di Mussolini e della componente favorevole all’accordo virò verso la disdetta del patto. L’attività costante e indipendente dell’ala militare, l’ulteriore indebolimento del movimento dei lavoratori, l’incapacità delle autorità di far rispettare l’accordo trovarono nel congresso costitutivo del Partito nazionale fascista, tenutosi a Roma tra il 7 e il 10 novembre 1921, il momento decisivo per la sconfessione del Patto di pacificazione. Dalle pagine de Il Popolo d’Italia, l’accordo venne così dichiarato “morto e sepolto” e le violenze nei confronti delle organizzazioni e dei militanti nemici proseguirono con l’avallo del neonato partito e la colpevole passività delle autorità.