“Dopo Fiume, marceremo su Roma”: esercito e fascismo, una “storia d’amore” sotto il segno del nazionalismo
Quale fu il rapporto del Regio esercito con il fascismo? In questo sguardo retrospettivo, nella settimana in cui si celebra l’anniversario dell’8 settembre, ricostruiamo la genesi di un rapporto determinante, quello con l’esercito, che ha dato linfa al movimento fascista. Continua la rubrica “Cos’era il fascismo”
TRENTO. L’8 settembre 1943, a seguito della firma dell’armistizio con gli anglo-americani, il Regio esercito italiano si sfaldava. Centinaia di migliaia di soldati, sparsi sui vari fronti di guerra aperti dall’Asse nazifascista, venivano lasciati allo sbando, aprendo a un imminente futuro di massicce deportazioni in Germania, fughe, adesioni ai movimenti resistenziali o (spesso in forma coatta) alle nascenti formazioni repubblicane fasciste (QUI l’articolo).
Il rapporto del fascismo con l’esercito, nondimeno, non s’era certo cementato nelle “imprese” coloniali avviate dal regime, dalla Libia all’Etiopia, fino alle invasioni della Francia, della Grecia, della Jugoslavia e dell’Unione Sovietica. La stessa origine del movimento dei Fasci si può ricondurre a un “brodo di coltura” militarista, nazionalista e antisocialista nato nelle “radiose giornate di maggio” e alimentato dalla Grande Guerra.
Il fascismo “diciannovista” – la cui data di fondazione fu il 23 marzo 1919, nella milanese piazza San Sepolcro (QUI l’articolo) – contava fra le proprie fila i più bellicosi reduci delle trincee, dai futuristi di Filippo Tommaso Marinetti agli Arditi, corpo dell’esercito adibito alle incursioni fra le fila nemiche (QUI l’articolo). Dall’intervento, l’11 gennaio 1919, al Teatro della Scala, quando con fischi e sollazzi venne impedito di tenere un discorso all’interventista democratico Leonida Bissolati, all’estate di quello stesso anno, in cui non mancarono scorrerie contro cortei e manifestazioni socialiste e popolari, questo connubio di forze prese sempre maggior forza – caratterizzandosi tuttavia per una natura ancora elitaria e sprezzante delle potenzialità dei movimenti di massa.
L’entrata in scena dello squadrismo, come noto, avvenne con l’assalto alla sede dell’Avanti! del 15 aprile ’19; a condurlo furono proprio futuristi, Arditi e ufficiali di complemento, che a seguito della devastazione dell’organo di partito socialista omaggiarono il capo dei Fasci nonché direttore de Il Popolo d’Italia Benito Mussolini con quella stessa insegna del giornale da cui, 5 anni prima, era stato estromesso a seguito della conversione all’interventismo (QUI l’articolo).
In quel caso, le forze dell’ordine avevano dato dimostrazione di una parzialità emersa ancor più chiaramente nei mesi a seguire (QUI l’articolo). Ma quale fu, invece, il sostegno dell’esercito alla causa fascista? Nell’affrontare il tema, una premessa appare necessaria: quando si parla di forze dedite alla pubblica sicurezza – o di forze dell’ordine – si parla di corpi militari. C’era una certa sovrapposizione dunque, fra i compiti dell'Arma e quelli dell'esercito, come fra quest’ultimo e le guardie regie, istituite con decreto regio nell’ottobre 1919.
Formate in gran parte da ex reduci, le guardie regie rispondevano – a parziale differenza coi carabinieri – direttamente al Ministero degli Interni, svolgendo compiti di polizia giudiziaria, presidiando per lo più i capoluoghi e lasciando all’Arma l’azione di controllo su centri rurali e campagne. Impiegate ampiamente, secondo direttive dei governi liberali, in attività di “polizia preventiva”, le guardie regie incarnarono perfettamente l’avversione delle classi borghesi e dirigenti verso il socialismo e le organizzazioni proletarie.
In un’Italia che all’inizio del 1919 vedeva ancora la metà degli arruolati non smobilitati (circa 2 milioni di uomini), l’esercito non poteva che svolgere un ruolo influente nella vita pubblica; e se da una parte gli alti gradi continuarono a incarnare sentimenti nazionalisti e militaristi, ormai sempre più in contrasto con le istituzioni liberali, dall’altra questi fecero breccia anche tra i reduci. La militarizzazione della vita pubblica, la crescita della conflittualità sociale, la massiccia presenza di armi, i disastrosi esiti delle trattative di pace, fecero il resto, portando in Italia, Paese vincitore della Grande Guerra, un clima paragonabile a quello di un Paese sconfitto.
Interpreti della reazione al protagonismo proletario, furono gli ufficiali – appartenenti per lo più alla piccola e media borghesia – a partecipare entusiasticamente al nascente fascismo. Laboratorio per la futura temperie fascista fu la città di Fiume, dove il poeta Gabriele D’Annunzio, “vate della Nazione”, condusse un battaglione dell’esercito nell’occupazione della città, di contro alle direttive del capo del governo e dei comandi delle forze armate. La sovversione, così, si faceva strada e fra nazionalisti e fascisti si sparse un’idea: dopo Fiume, è il tempo di Roma.