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“Una Repubblica senza esercito in guerra”: tra ostacoli e diserzioni, il difficile riarmo dell’Rsi

Dopo la costituzione della Repubblica sociale italiana, al maresciallo Rodolfo Graziani, ministro della Difesa, viene affidato il compito di dar vita ad un nuovo esercito. Le difficoltà nel reclutamento e gli ostacoli imposti dall’alleato tedesco rendono però fallimentare l’impresa. Con un altro balzo nella guerra civile che sconvolse il Paese tra l’autunno del ’43 e la primavera del ’45 continua così la rubrica “Cos’era il fascismo”

Foto tratta da wikipedia
Di Davide Leveghi - 10 ottobre 2021 - 10:55

Si reputa necessario far presente, per norma degli interessati, che l’Autorità Militare ha avvertito che in caso di mancata presentazione dei militari soggetti alla predetta chiamata oltre alle pene stabilite dalle vigenti disposizioni del codice militare di guerra saranno presi immediati provvedimenti anche a carico dei capi famiglia” (dal “Bando Graziani” per le classi 1923, 1924 e 1925 del 9 novembre 1943)

 

TRENTO. Il 13 ottobre 1943, il governo italiano nella parte liberata dagli Alleati dichiarava ufficialmente guerra alla Germania. Iniziava così la co-belligeranza del Regno del Sud con le truppe angloamericane impegnate a risalire la penisola nella guerra contro gli occupanti tedeschi e la Repubblica sociale italiana (QUI un approfondimento). La partecipazione di truppe italiane, sia al di qua che al di là della linee di difesa germaniche, fu oggetto delle perplessità sia degli Alleati che degli occupanti tedeschi. Se nel primo caso, però, tale situazione era destinata a mutare, diverso fu il caso delle formazioni del neo-costituito Esercito nazionale repubblicano, agli ordini del generale Rodolfo Graziani.

 

Questo, nonostante – come scrive lo storico Mimmo Franzinelli in Storia della Repubblica Sociale Italiana 1943-1945 – “la priorità della Repubblica sociale italiana fosse il combattimento. Solo fiancheggiando l’esercito tedesco, infatti, è possibile lavare l’onta del tradimento e ristabilire l’onore della patria”. Il bacino d’utenza privilegiato per poter arruolare nuove forze da schierare nella guerra contro gli Alleati sarebbe dovuto essere l’immenso numero di internati militari disarmati, arrestati e deportati verso la Germania, stimabili in circa 600mila uomini – la loro condizione non era tra l’altro assimilabile a quella di prigionieri militari, con tutte le conseguenze del caso sia per quanto riguarda il trattamento che per l’utilizzo massiccio nei lavori forzati a servizio della macchina bellica tedesca.

 

Le difficoltà, per Mussolini e Graziani, furono già dal principio insormontabili. Se da una parte centinaia di volontari si presentavano all’arruolamento nelle truppe tedesche, nelle SS o nelle formazioni fasciste, dall’altra la costituzione di un vero e proprio esercito si scontrò sia con la diffidenza del vecchio alleato che con lo scarso entusiasmo degli uomini a proseguire la guerra. Non è un caso, dunque, che nel proseguimento di quei terribili venti mesi l’esercito repubblicano finì per svolgere per lo più compiti di polizia interna nella feroce repressione delle formazioni partigiane, rimpolpate sempre più proprio da quegli uomini su cui pendeva l’obbligo di leva.

 

Divenuto ministro nella Difesa della neo-costituita Repubblica sociale, il maresciallo Rodolfo Graziani tornava alla ribalta dopo essere caduto in disgrazia a seguito delle sconfitte in Libia. Destituito da Mussolini nel febbraio 1941, il grande protagonista del brutale colonialismo fascista – ferito in un attentato del febbraio ’37 ad Addis Abeba, a cui seguì una terribile rappresaglia (QUI l’articolo) – assumeva il compito di dar vita ad un nuovo esercito sulle basi tradizionali della coscrizione e non del volontariato, come avvenuto in gran parte delle formazioni politicizzate della Rsi.

 

Gli esiti, ben presto, si dimostrarono fallimentari. Dopo i colloqui preparativi con i comandi tedeschi, alla prospettiva ventilata di costituire 25 nuove divisioni con i 600mila militari internati nel Reich, Graziani si deve arrendere alla concessione tedesca di istituirne solo 4. Solo il 5% dei soldati e il 28% degli ufficiali appartenenti agli Imi, gli Internati militari italiani, ha infatti accettato di arruolarsi nelle forza armate repubblicane che si vanno formando.

 

I tedeschi, dal canto loro, non solo diffidano della fedeltà delle “Badogliotruppen – come vengono spregiativamente battezzate le truppe italiane – ma preferiscono di gran lunga utilizzare i soldati del disfatto Regio esercito nelle fabbriche, nei campi di lavoro e nell’organizzazione Todt, impresa che lavorava nella costruzione di infrastrutture ed opere di comunicazione a servizio della macchina bellica nazista.

 

Sul territorio controllato dai nazifascisti, invece, Graziani dispone la coscrizione obbligatoria per classi d’età. Si comincia il 9 novembre del ’43, con l’arruolamento dei giovani nati nel ’23, nel ’24 e nel ’25. Nonostante l’ombra orrorifica delle rappresaglie sulle stesse famiglie dei renitenti, dei circa 180mila uomini richiamati alla leva saranno solamente 87mila quelli che si presenteranno. Molti si nascondono, altri salgono sulle montagne per rimpinguare le formazioni partigiane. Diversi saranno poi i bandi emanati dal ministero della Difesa – convertito nel gennaio del ’44 in ministero delle Forze armate – molti simili gli esiti.

 

La speranza di Mussolini e Graziani, a quel punto, si spostava sulle truppe internate nei campi del Reich. Le 4 divisioni presero vita così: gli alpini formarono la divisione Monterosa, i bersaglieri l’Italia, i granatieri la Littorio e i fanti di Marina la San Marco. Addestrati in Germania, i soldati vengono rimpatriati con ritardo solamente dall’estate inoltrata del 1944. Il comando di quelle stesse truppe finirà poi per essere sostanzialmente avocato a sé dai tedeschi, sottraendolo a Graziani. Al rimpatrio, inoltre, seguirà più che lo schieramento delle divisioni sul fronte contro gli Alleati l’utilizzo delle stesso in funzione antiguerriglia, nella guerra civile scatenata contro i partigiani. Grandi difficoltà vi furono, nonostante le durissime misure adottate, nel tamponare le diserzioni.

 

Secondo fonti militari dell’esercito italiano, l’esercito repubblicano arrivò a contare nei venti mesi di guerra civile fino a 558mila uomini. Una buona parte di essi non fu però adoperata in operazioni belliche, bensì in opere logistiche. E se buon parte delle truppe fu utilizzata nella guerra antipartigiana, molto limitato fu l’apporto al fronte appenninico, tra la Garfagnana e l’Abetone.

 

Le conclusioni dello storico Franzinelli aiutano a comprendere quale fu il destino dell’esercito nazionale repubblicano: “La Rsi, sebbene nata (grazie ai tedeschi) in un contesto bellico, si ritrova in guerra senza esercito, dato che – tranne isolate e poco significative eccezioni (enfatizzate dalla propaganda bellica e, nel dopoguerra, da pubblicisti nostalgici) – le sue truppe tenute lontane dal fronte per decisione germanica, combattono altri italiani. Quel che si riesce a costruire è una struttura composta da elementi poco convinti, con tensioni e conflitti interni. Gli ostinati sforzi di Mussolini e Graziani in campo militare puntano essenzialmente a dare una parvenza di legittimità e verosimiglianza a una repubblica con fondamenta deboli e pericolanti”.

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