“Siamo quelli del ‘21”: la violenza e lo squadrismo nella Repubblica sociale italiana
Il 23 settembre 1943 nasceva ufficialmente la Repubblica sociale italiana, nuova entità formatasi dopo la liberazione di Mussolini da parte dei tedeschi. Di fatto Stato fantoccio al servizio dell’alleato, fu sotto molti aspetti l’estremizzazione del totalitarismo fascista, recuperando molti contenuti del fascismo delle origini. Lo squadrismo trovò così nuova forma nella costituzione delle Brigate nere, una fra le tante formazioni impiegate nella feroce guerra antipartigiana. Continua “Cos’era il fascismo”
“Camerati si ricomincia. Siamo quelli del Ventuno… lo squadrismo è stata la primavera della nostra vita. Chi è stato squadrista una volta, lo è per sempre” (Alessandro Pavolini, neo-segretario del Partito fascista repubblicano, Congresso di Verona, 14 novembre 1943)
TRENTO. Passato il 25 luglio, scrive il maggiore storico del fascismo, Emilio Gentile, l’Italia si trovò di fronte a un bivio: da una parte la strada dello smantellamento del regime, vista l’impossibilità di trovare un sostituto di Mussolini, dall’altra l’estremizzazione delle logiche totalitarie. Come noto, nei tragici mesi che portarono fino al maggio del 1945 entrambe queste strade vennero imboccate, spaccando il Paese a metà.
Il 12 settembre 1943 un contingente di paracadutisti tedeschi liberò il capo del fascismo dalla prigionia sul Gran Sasso (QUI l’articolo). Dopo un volo fino a Monaco di Baviera, Mussolini poté quindi raggiungere Hitler, intavolando delle trattative per la costituzione di un nuovo Stato fascista nel centro-nord controllato in quel momento dai tedeschi. Appoggiandosi a figure convintamente filo-naziste, in gran parte fuggite nel Reich dopo la notte del 25 luglio, il Führer riuscì così a spingere un Mussolini incerto ed abbattuto – come scrive Gentile, “prigioniero del suo mito” - a dar vita ad un nuovo Stato alleato, la cui natura, come annunciato dallo stesso in un discorso trasmesso da Radio Monaco nella giornata del 17 settembre, doveva essere “nazionale e sociale nel senso più lato della parola”, “fascista nel senso delle nostre origini”.
I fascisti della Repubblica sociale italiana erano quindi animati dal risentimento e dal desiderio di rivalsa. Non c’era solo la rancorosa indolenza di un leader “tradito” da quella stessa materia – il popolo italiano – che s’era riproposto di plasmare, ma soprattutto la volontà di sfruttare l’occasione per riallacciare i fili con la rivoluzione degli albori, superando così i compromessi operati dal regime con industriali, borghesia, monarchia, Chiesa. Non a caso il Manifesto di Verona, documento programmatico del nuovo regime, seppur rimasto in larga parte disatteso a causa della feroce guerra civile, rifletteva lo spirito di San Sepolcro e del primo fascismo: repubblicano, antiborghese, anticapitalista, anticlericale.
Il 23 settembre, la nuova repubblica – poi battezzata Repubblica sociale italiana – si insediò ufficialmente. Le sue sorti si legarono al piccolo paese di Salò, sulla sponda bresciana del Garda, dove si stabilirono alcuni dei principali ministeri, tra cui quello degli Esteri. Di fatto, la sua autorità fu fortemente limitata dalla presenza massiccia dei contingenti e dei comandi tedeschi, che ne impedirono in molti casi l’azione di governo, nonché il territorio su cui esercitarla (diverse province, fra cui quella di Trento e Bolzano, vennero praticamente annesse al Reich – QUI un approfondimento). Seppur con una precisa visione del mondo e della nuova Italia repubblicana e fascista, la Repubblica sociale si comportò come uno Stato fantoccio, asservito alle necessità belliche dell’alleato nazista.
Il piano programmatico, espresso appunto nel manifesto veronese, constava di 18 punti che tratteggiavano un Paese regolato secondo principi repubblicani, di socializzazione dell’economia, corporativisti e razzisti. Veniva ribadito il primato del Partito, ricostituito in Partito fascista repubblicano, sulla vita del Paese, così come “la razza ebraica” era qualificata come “straniera” e quindi “nemica”. Nel lato pratico, ogni azione governativa fu però accantonata, la repubblica assorbita nella repressione della lotta antipartigiana.
Non a caso, in una realtà frammentata e caotica venne a crearsi una galassia di gruppi armati al servizio dell’occupante tedesco, capaci di ritagliarsi a seconda dei casi spazi più o meno considerevoli di autonomia. Sotto il comando di Renato Ricci, già noto come feroce ras di Carrara (e al centro dei fatti di Sarzana – QUI l’articolo), si costituì dapprima la Guardia nazionale repubblicana, corpo di polizia militare che inglobava le competenze di carabinieri, milizia e polizia coloniale e che contava inizialmente quasi 140mila uomini. Impiegata nell’ordine pubblico, partecipò a diversi episodi di rastrellamenti e rappresaglie antipartigiane, venendo poi assorbita nell’agosto 1944 dall’Esercito nazionale repubblicano.
Agli ordini del maresciallo Rodolfo Graziani, ministro della Difesa della neo-costituita Repubblica sociale, l’Esercito arrivò a contare oltre 550mila unità (numeri ricostruiti dall’Ufficio storico delle forze armate), reclutate attraverso i bandi d’arruolamento o tra i soldati caduti prigionieri dei tedeschi dopo l’8 settembre e l’armistizio di Cassibile (QUI un approfondimento). Molti di loro vennero impiegati nelle industrie tedesche, mentre l’utilizzo sul fronte contro gli Alleati fu alquanto limitato dalla diffidenza dei comandi nazisti. Così, l’Esercito fu per lo più impiegato in azioni antipartigiane, impelagato in una guerra civile che tra brutali violenze ed insopportabili bandi (su tutti il Bando Graziani per il reclutamento militare obbligatorio, in cui si stabilirono pesanti punizioni per i renitenti) finì per rimpolpare le fila della Resistenza.
Oltre a numerosi altri reparti, bande e compagnie (tra cui vale la pena di ricordare le SS italiane, sottoposte a diretto comando tedesco, e la Xª Mas di Junio Valerio Borghese), merita menzione la costituzione delle Brigate nere, corpo ausiliario e volontario delle forze armate repubblicane direttamente collegato al partito. Composte secondo i propositi iniziali da oltre 100mila militi (a malapena ne raggiunsero un terzo), furono espressamente volute dal nuovo segretario Alessandro Pavolini, che le presentò come diretta filiazione dello squadrismo delle origini.
Grande protagonista dello squadrismo fiorentino, esponente radicale del fascismo, Pavolini fu instancabile redattore di giornali e periodici, ministro della Cultura popolare durante gli anni della guerra. Dopo il 25 luglio, fuggì in Germania ed assieme a Guido Buffarini Guidi (poi ministro degli Interni della Rsi) riorganizzò il partito. Nel 1944, di fronte alle crescenti difficoltà nella gestione dell’ordine pubblico e allo smantellamento progressivo della Guardia repubblicana, fu promotore delle Brigate nere, entità capace di raggruppare le formazioni paramilitari fasciste direttamente collegate al partito – composte maggiormente, alla fine, da soggetti non volontari, reclutati coi bandi.
Politicizzate, radicali e profondamente animate da risentimenti e sindromi del tradimento, le Brigate nere operarono con ferocia, lasciandosi spesso andare a violenze gratuite nei confronti della popolazione civile. Formazioni al servizio dell’occupante, vennero impiegate nella guerra antipartigiana, macchiandosi di crimini che finirono per alimentare l’afflusso di giovani sulle montagne.