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Storia

"Ringrazio Campogrosso, lassù ho capito il significato della sofferenza": il lungo inverno di Remo Bussolon nei cantieri della Fortezza Alpina

È stato ripubblicato a opera del Gruppo storico Valle dell’Agno il libro di Bussolon, insegnante, sindaco di Vallarsa e per decenni appassionato ricercatore storico e memorialista della sua valle, che racconta l'esperienza autobiografica di adolescente arruolato nel cantiere di Campogrosso. Un libro da riscoprire assieme al suo autore 

di
Michele Santuliana
17 ottobre | 12:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

«Campogrosso. Ridente e suggestivo nelle belle giornate di sole, ma anche austero e torvo nei grigi e nebbiosi pomeriggi d’autunno, e addirittura impervio e inospitale quando vi imperversano le frequenti bufere invernali. E proprio lassù, nel duro inverno tra il 1944 e il 1945, sul finire della seconda guerra mondiale, si consumò in un breve lasso di tempo uno scorcio assai limitato nel lungo arco della mia vita, ma tuttavia intenso e significativo nel corso della mia successiva maturazione».

 

Così Remo Bussolon scrive nel suo libro di memorie Un inverno a Campogrosso. Coi suoi 1460 metri di quota, Campogrosso è il valico che mette in comunicazione la Valle dell’Agno con la Vallarsa, separando al contempo il gruppo del Carega dal Sengio Alto. Terra di passaggio fin dall’antichità, per secoli il passo è stato anche confine politico: a partire dall’epoca moderna fra la Serenissima e l’impero austriaco prima, quindi, dopo il 1866, fra le terre di Francesco Giuseppe e il neonato regno d’Italia; oggi, infine, fra le province di Vicenza e Trento.


Il rifugio Campogrosso dalla vetta della Sisilla - foto dell'autore

Punto strategico durante la Prima guerra mondiale per la sua posizione fra il Pasubio, il Carega e il fronte della Vallarsa, Campogrosso tornò alla ribalta nella fase finale della Seconda guerra mondiale, quando, in previsione di un’ultima disperata resistenza in quella che doveva essere la Fortezza della Alpi (Die Alpenfestung), i tedeschi avviarono dallo Stelvio al golfo di Trieste una serie di lavori di fortificazione, molti dei quali attuati riadattando vecchie postazioni della Grande Guerra.

 

I lavori furono affidati alla Todt, l’organizzazione messa in piedi da Fritz Todt, ministro degli armamenti e degli approvvigionamenti del Reich, per realizzare opere di difesa. La Todt operava in collegamento con i comandi militari e si avvaleva solitamente di ditte e maestranze locali. È a questo punto, a settembre 1944, che prende avvio la vicenda narrata da Bussolon, quando giunge anche a lui la cartolina precetto per prestare servizio come manovale.


Il gruppo del Carega e il Passo di Campogrosso visti dalla Sisilla - foto dell'autore

All’epoca il futuro sindaco di Vallarsa è uno studente diciassettenne che ha da poco superato da privatista l’esame di V ginnasio. Ha un fisico gracile e mani delicate, non è certo preparato per i lavori pesanti, ma nel Trentino annesso al Reich non c’è possibilità: si deve rispondere alla chiamata. Poi, raggiunta la maggiore età, arriverà la cartolina precetto per la Polizia Trentina o per la Flack, il servizio nella contraerea a difesa della Valle dell’Adige martellata dai bombardamenti alleati.

 

Così il giovane, ignaro e inadatto ai compiti che dovrà svolgere, si presenta. È l’inizio di un’esperienza di quattro mesi che lo segnerà nel profondo, anche a causa della scelta che compie al momento dell’assegnazione al cantiere. Fiducioso perché molti amici e paesani già vi lavorano, Bussolon chiede di essere assegnato a Campogrosso, un sito particolarmente importante, i cui lavori avvengono, a differenza che altrove, alle dirette dipendenze dei tedeschi. Non pensa che di lì a poco arriverà l'inverno.


Veduta dalla feritoia di un bunker - foto dell'autore

Con la distanza degli anni e la maturità dell’uomo che ha vissuto, in Un inverno a Campogrosso Bussolon ci regala, accanto alle riflessioni, la freschezza di un’esperienza di vita che il tempo non ha sbiadito, dipingendo situazioni e personaggi con precisione rispetto al dato storico ma, al contempo, con profonda umanità. Conosciamo così i suoi compagni, la «brigata» degli operai trentini di cui fa parte, gli ufficiali tedeschi, i due soldati delle SS e i due della SA armati di tutto punto, lo zoppo fanatico Franz, i quattro polacchi arruolati dai tedeschi e spediti di presidio fra montagne tanto lontane da casa.

 

Fra gli aspetti più suggestivi della scrittura di Bussolon vi sono infatti i ritratti che sa tratteggiare con sapienza e cura dei particolari: quello, per esempio, del maggiore Hermanz, l’indolente comandante, già reduce della Grande Guerra, che ogni sera si ubriaca, forse per dimenticare l’orrore di un conflitto che gli ha portato via due figli, o quello dell’instabile tenente Himmel, al pari dipendente dall’alcol e inseparabile dal parabellum russo che si è portato a Campogrosso assieme alle ferite accumulate sul fronte orientale, nel corpo ma, ancor più nell’animo. Scrive Bussolon: «A Campogrosso avevo proprio incontrato una piccola galleria di personaggi strani, per non dire anormali, […] tanto che ho sempre pensato meritassero di essere fissati sulla carta».

 

Intorno, una montagna che col passare delle settimane si fa sempre più ostile e inospitale: il gelo, la neve, uniti all’equipaggiamento quasi nullo, rendono i lavori ogni giorno più difficili. Ma i piani dei tedeschi non ammettono esitazioni. E così fuori, con ogni tempo, a mani nude, per spostare sassi, trasportare tronchi, scavare postazioni.


L'ingresso di un bunker realizzato nei pressi del passo di Campogrosso - foto dell'autore

 

Nella narrazione due momenti toccano il culmine della tensione: il tentativo di fuga momentanea messo in atto dal protagonista con due amici per poter passare una notte in famiglia e l’uscita, nel gennaio 1945, in piena bufera di neve, lungo la Strada del re, per accompagnare una corvée di animali someggiati carichi di viveri. Sono veri e propri racconti nel racconto, scritti con penna scorrevole e col pathos degli eventi drammatici realmente vissuti.

 

Altro aspetto degno di nota è la montagna. Per Bussolon si tratta dei sentieri, dei boschi, delle valli di casa, conosciuti e percorsi fin dall’infanzia, ma allo stesso tempo pieni di insidie a causa della guerra. Eppure, nonostante i rischi corsi, in più di un’occasione traspare la gratitudine dell’autore per un periodo difficile ma che gli ha insegnato molto.

 

Scrive ancora Bussolon: «Per questo ringrazio Campogrosso. Per il freddo che ho patito, per la fame che ho sopportato e per le altre vicissitudini che mi sono accadute in seguito, perché lassù, meglio che altrove, ho capito il vero significato della sofferenza, il significato stesso della vita. […] Lassù ho imparato che l’essere umano è più forte della fame, del freddo e delle intemperie, e che in circostanze particolari sa superare difficoltà del tutto inimmaginabili in tempi normali».


La locandina della presentazione a Valdagno (VI)

 

Pubblicato nel 1996 da Longo Editore di Rovereto, il libro di Bussolon, nel frattempo scomparso nel 2016, risultava da tempo esaurito. Conosce ora una nuova stagione grazie alla cura del Gruppo storico Valle dell’Agno, che ha ripubblicato l’opera col patrocinio della città di Valdagno, dei comuni di Vallarsa e Recoaro e dell’Associazione Bunker Recoaro, impegnata da anni nello studio e nella valorizzazione dei documenti e dei manufatti legati al periodo dell’occupazione e della Resistenza. La prima presentazione di questa nuova edizione (Mediafactory, Cornedo Vicentino, 2024) si terrà a Valdagno il 24 ottobre prossimo.

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