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Storia

(IL VIDEO) I vascelli del Vajont: gli alberi sopravvissuti alla frana, deformati ma vivi, sono un monumento alla memoria

Inoltrandosi nel bosco nato tra i frantumi del monte Toc si ha la percezione che il bosco sia cresciuto per coprire le cicatrici lasciate da una politica poco lungimirante, ingorda, disinteressata alle esigenze del territorio e di chi lo abita. Ma quel bosco custodisce anche dei veri e propri monumenti vegetali alla memoria: piante dallo sviluppo orizzontale e dal cui fusto partono in direzione del cielo altre piante. Un brano tratto da "Sottocorteccia" per ricordare la tragedia del Vajont

di
Pietro Lacasella e Luigi Torreggiani
09 ottobre | 12:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Lasciata Feltre, ci affianchiamo al Piave e lo seguiamo fedel­mente. All’altezza di Ponte nelle Alpi, il fiume svolta secco tra le montagne da cui nasce e si nutre. Dopo una quindicina di mi­nuti si intravede Longarone, con i suoi palazzoni anni Settanta.

 

Sembra un grande balcone, affacciato prima su una zona indu­striale e poi su due monti: il Toc e il Salta. A unirne le pendici, scavate dal torrente Vajont, è una colata di cemento alta 261 metri. Ha retto alla frana di 260 milioni di metri cubi di roccia che si è staccata dal Toc; non si è piegata all’onda di 50 milioni di metri cubi d’acqua che, invece, ha inghiottito Longarone. È ancora lì, a testimoniare gli aspetti più insidiosi di una piani­ficazione territoriale mossa dall’imperativo di «massimizzare i profitti per pochi e di minimizzare le precauzioni per tanti», per dirla con le parole dello storico dell’ambiente Marco Armiero.

 

La diga, incastrata com’è, ricorda il nido di un rapace che scruta dall’alto, con occhio minaccioso, Longarone. Solo che oggi la minaccia non è più rappresentata dalla possibile traci­mazione dell’acqua o da un’ipotetica frana, bensì dal ricordo quotidiano di un evento doloroso che, anche quando non lo si evoca direttamente, si percepisce nell’aria, nelle cose e nel paesaggio. La stessa Longarone, molto lontana nell’aspetto da quella precedente alla catastrofe, è un potentissimo generatore di malinconia: da ogni suo scorcio, da ogni sua architettura, da ogni sua strada, trasuda l’entità del dramma.

 

Ci fermiamo a dormire in un elegante bed and breakfast e la mattina seguente, invece di rispettare il programma, im­provvisiamo una breve visita al bosco cresciuto sui frantumi del Toc.

Mentre ci spingiamo nel fitto, ho la percezione che gli alberi siano cresciuti per coprire le cicatrici lasciate da una politica poco lungimirante, ingorda, disinteressata alle esigenze del ter­ritorio e di chi lo abita. Ma quel bosco – mi ha spiegato Luigi qualche minuto prima di arrivare – custodisce anche dei veri e propri monumenti vegetali alla memoria. Piante dallo svilup­po orizzontale, quasi parallelo rispetto al terreno, dal cui fusto partono, in direzione del cielo, altre piante.

 

«Non ho mai visto una cosa simile!» esclamo. «Sembra di trovarsi di fronte a un enorme vascello in secca. Un vascello con tanti alberi maestri

«La forza della dominanza apicale!» risponde Luigi, che poi, scorgendo un riflesso di curiosità nei miei occhi, si mette a raccontare: «La dominanza apicale è un fenomeno fisiologico tipico degli alberi e particolarmente evidente nelle conifere. In pratica, l’apice vegetativo, attraverso dei meccanismi chimico-fisici, inibisce e controlla le gemme laterali delle piante, deter­minando così quella forma tipica che tutti conosciamo, con una sola punta protesa verso l’alto. Però, quando l’apice vegetativo viene danneggiato, ad esempio da un fulmine, sono le gemme laterali a prendere la dominanza apicale, determinando forme strane, simili a candelabri».

 

Appoggiandosi con la schiena a uno di quei singolari vascel­li, prosegue nella spiegazione: «Qui ci troviamo di fronte a una situazione diversa, decisamente drastica. Queste piante hanno letteralmente viaggiato lungo la frana del monte Toc, in quella maledetta notte di sessant’anni fa, praticamente galleggiando sulla frana stessa. Qualche radice è rimasta ancorata al terre­no, ma gli alberi erano praticamente coricati, distesi rasoterra. Di conseguenza, a prendere il sopravvento grazie alla dominan­za apicale sono stati tutti i rami posti lungo il fusto, che sono diventati simili a dei veri e propri alberi. Questi mostri vegetali così strani, atterrati e rinati da sé stessi, sono oggi dei veri e propri simboli, che ci spingono a riflettere».

Riflettendo, riprendiamo a camminare nel bosco. Sfioriamo vascelli in larice, altri in peccio. Il più marcato nelle forme è proprio un abete rosso. In silenzio ci avviciniamo per osser­varlo e, con grande stupore, ci accorgiamo che attorno a lui è arrivato il bostrico: l’aspetto degli abeti che lo circondano non lascia dubbi. Senza proferire parola ci sediamo tra le propaggini verticali di quell’albero orizzontale. Sembra ancora sano, per fortuna. Chissà se l’anno prossimo riuscirà a sopravvivere agli attacchi del coleottero. In ogni caso, per il momento, è rigoglio­so nella sua deformità. Questa constatazione sa di speranza e così, dopo aver fatto penzolare ancora un po’ le gambe nel vuo­to, saltiamo giù per tornare alla macchina – ora chiacchierando, ma sottovoce.

 

Questo testo è stato tratto da "Sottocorteccia - Un viaggio tra i boschi che cambiano", il primo libro targato L'AltraMontagna.

 

L'AltraMontagna ha realizzato anche un video su questa storia, per la video-rubrica "Il versante nascosto":

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