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Storia

90 e 79 anni: in Val di Non gli ultimi due frustai d'Europa. Storia di un'attività commerciale che ha reso internazionale il paese di Taio

Oggi può sembrare strano, ma grazie ai manici da frusta, il paese di Taio, che si trova tra i meleti della Val di Non, è riuscito in parte ad arginare lo spopolamento che ha svuotato molti solchi vallivi. È sufficiente pensare che negli anni Venti, a donare al legno l’elasticità necessaria per diventare un manico da frusta, si contavano 350 addetti. Quasi ogni famiglia era coinvolta, in modo più o meno diretto, in questa attività

di
Pietro Lacasella
02 novembre | 06:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

L’odore intenso della legna lavorata stordisce il naso una volta superata la soglia del laboratorio, ma ciò che più sorprende è la pressoché totale assenza di plastica. Ogni strumento, dai coltelli alle seghe, sembra ignorare questo materiale, così pervasivo nella contemporaneità.

 

Legno e ferro, ferro e legno, ovunque, a comporre l’attrezzatura necessaria per la lavorazione dei manici da frusta. Dalla finestra si intravvedono i campi di mele che, come una coperta a righe sottili, coprono in modo omogeneo una parte importante della Val di Non. Davanti a me, eleganti nella loro compostezza, i fratelli Tamé, gli ultimi frustai di Taio, ma anche del Trentino, d’Italia e, probabilmente, anche d’Europa. Rocco di novant’anni e Tullio di settantanove.

 

Oggi può sembrare strano, ma grazie ai manici da frusta, il paese di Taio, che si trova appunto tra i meleti della Val di Non, è riuscito in parte ad arginare lo spopolamento che ha svuotato molti solchi vallivi. È sufficiente pensare che negli anni Venti, a donare al legno l’elasticità necessaria per diventare un manico da frusta, si contavano 350 addetti. Quasi ogni famiglia era coinvolta, in modo più o meno diretto, in questa attività.

A introdurla nel paese fu proprio un emigrante, Simone Barbacovi, che fu costretto a lasciare Taio a causa delle sfavorevoli condizioni economiche che si erano venute a creare in seguito alle guerre napoleoniche. Trovò lavoro come operaio falegname a Salorno, lungo l’importante arteria commerciale Verona-Innsbruck. Fu nell’osservare il costante viavai di carrettieri che in lui nacque l’interesse per i manici da frusta, all’epoca strumento di fondamentale importanza per condurre le merci a destinazione.

 

Nel 1818, questa intuizione lo spinse nel bresciano, dove già esistevano delle botteghe artigiane di manici. Una gavetta importante, che gli garantì un’autonomia pratica e commerciale, così nel 1830 tornò a Taio e, con spirito imprenditoriale, iniziò a offrire un nuovo slancio occupazionale al paese aprendo una fabbrica. Nei decenni successivi a questa se ne aggiunsero altre fino a toccare, nel 1920, il numero massimo di ventuno botteghe. Con la crescita degli operai e delle strutture adibite alla fabbricazione delle fruste, presero forma anche importanti accorgimenti sociali: vennero infatti istituiti il Consorzio dei Fabbricanti dei Manici da Frusta e la Cassa Ammalati.

Grazie ai manici Taio inspirava e espirava, importava tronchi di bagolaro dal Veneto o dalla Lombardia ed esportava dozzine e dozzine di manici in Europa e nel mondo, come ad esempio negli Stati Uniti o in Sud Africa. Poi il vento ha iniziato a inseguire nuove traiettorie e la produzione è andata via via declinando. D’altronde il corpo socio-economico dei paesi ha sempre avuto un carattere plastico, segnato da trasformazioni spesso imprevedibili. Lo sviluppo del trasporto a motore e il passaggio da un’agricoltura mista di sussistenza che si integrava alla lavorazione dei manici, alla monocoltura delle mele furono due dinamiche decisive nel progressivo affievolimento di questa attività.

Così i fratelli Tamè e il loro laboratorio sono oggi un sussurro che arriva dal passato. Lavorano ancora: non più per appagare le necessità dei carrettieri, bensì per la messa in scena di manifestazioni folcloristiche, legate a un mondo rurale profondamente mutato.

Il pavimento della bottega è cosparso di trucioli dorati: scarti della lavorazione, un tempo usati per l’imballaggio dei manici, oggi come innesco per la stufa.

“Il legno non è più come una volta”, mi confida Rocco e, leggendo nei miei occhi un certo stupore, ha aggiunto che, probabilmente, oggi non c’è più la stessa cura nel donare alle piante un portamento longilineo. Quindi i bagolari, liberi di sbizzarrirsi nella sinuosità delle curve, sono più difficili da lavorare e, di conseguenza, aumenta il materiale di scarto.

 

Ad accompagnarmi nella visita, oltre al collega Federico Oselini (che, sul tema, ha scritto un articolo per la rivista UCT - a breve disponibile in edicola) c’erano Armando Larcher e Giorgio Chilovi, rispettivamente presidente e vicepresidente dell’Associazione culturale Taio Ieri – Per non dimenticare. È nata nel 2018, mi spiegano, e ha inaugurato un museo etnografico che ha il fine di trasmettere il ricordo delle attività artigianali, per strappare dall’oblio un mestiere che ha offerto al paese un respiro internazionale.

 

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