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Storia

Settembre di sangue sul monte Grappa. Ottant’anni fa il poderoso rastrellamento nazifascista: dieci giorni di furore e violenza con un tragico bilancio di vittime

L’operazione, nome in codice “Piave”, scattò il 21 settembre 1944 e si protrasse fino alla fine del mese. Furono dieci giorni di terrore, fra fucilazioni, violenze, devastazioni, arresti, deportazioni e impiccagioni. Con la promessa di aver salva la vita molti si consegnarono. Ma non era che un inganno dei nazifascisti. L’apice il 26 settembre, quando 31 giovani furono impiccati in centro a Bassano

di
Michele Santuliana
26 settembre | 12:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Bassano, 26 settembre 1944. Viale Venezia e via XX settembre sono avvolte da un silenzio spettrale, così come il resto del centro storico. Trattiene il fiato la città del Grappa, la montagna, già sacra alle genti venete, divenuta con la Grande Guerra “patria” degli italiani

 

Poi il rombo di un motore. È un camion, proviene dalla caserma Reatto. Compie un viaggio, poi un secondo, poi un terzo. Sul cassone giovani accovacciati, muti, stanchi, rassegnati forse. A turno il vicebrigadiere SS Karl Franz Tausch li afferra per le gambe e li fa sedere sulla sponda. A ciascuno infila un cappio realizzato con filo telefonico, che già penzola, sinistro, dai lecci del viale.

 

Uno strattone, una lieve spinta. E i corpi si allungano. Non un gemito, non una parola. La scena si ripete trentuno volte, sempre uguale: ma gli alberi non bastano per tutti, così l’ultimo ragazzo viene appeso all’elegante lampione in stile Liberty che inaugura viale XX settembre. Al petto porta, al pari dei suoi compagni, un cartello con una scritta: bandito. Nulla intorno si muove, la città pare di pietra. Solo al termine dell’operazione un coro sguaiato di adolescenti arruolati nel battaglione M irrompe fra le antiche vie del centro storico. Cantano Giovinezza. Poi di nuovo cala il silenzio.


I corpi dei 31 impiccati lungo Viale XX settembre, oggi Viale dei Martiri, a Bassano

L’impiccagione dei 31 giovani in quello che oggi è il Viale dei Martiri è forse l’episodio emblematico di quello che è passato alla storia come il massacro del Grappa. L’operazione, chiamata in codice “Piave”, fu la più massiccia fra le azioni antipartigiane condotte dai nazifascisti in Veneto. Per la Resistenza si trattò di una sconfitta durissima e dolorosa, per le proporzioni e per le modalità con cui il comando nazista gestì le operazioni.

Nel corso dell’estate 1944 il monte Grappa era divenuto base per circa un migliaio partigiani di diverse formazioni con vario orientamento politico: da Crespano a Fener operava la brigata “Italia Libera Val Piave Archeson”, di orientamento politico moderato, sul versante sud ovest la brigata “Italia libera Campo Croce”; la parte centrale del massiccio, compresa la zona di Cima Grappa e le valli di Seren e di Schievenin, era occupata dalla brigata socialista “Matteotti”; infine la zona occidentale, verso la Valbrenta, era tenuta dai battaglioni “Montegrappa” e “Leonessa” della brigata “Gramsci”, dipendente dalla divisione “Nannetti”, di orientamento comunista, che operava nelle valli feltrine e bellunesi. Fra i reparti, un’eccezione: un intero gruppo formato da militari del Commonwealth fuggiti dai campi di prigionia dopo l’8 settembre. Le forze potevano contare su un comando unificato affidato ad Angelo Pasini “Dodici”.

 

Per chiudere in una morsa le forze partigiane, dotate di poche armi leggere e in grado di sostenere combattimenti per non più di qualche ora, i nazifascisti schierarono un esercito imponente, equipaggiato con cannoni, mortai, blindati e lanciafiamme: circa 8000 uomini, fra unità della Wehrmacht, delle SS, di truppe ucraine specializzate nella lotta ai partigiani, di reparti del Corpo di sicurezza trentino, del Polizeiregiment “Bozen”. I fascisti schierarono la Legione d’assalto “Tagliamento” e, per cingere i paesi ai piedi del massiccio, le Brigate Nere di Vicenza e Treviso nonché alcune compagnie della Guardia Nazionale Repubblicana.

 

L’operazione “Piave” scattò alle 6:00 del mattino del 21 settembre 1944, con un intenso bombardamento di artiglieria che colpì duramente parte delle posizioni tenute dai partigiani. Un’ora dopo le truppe nazifasciste scattarono all’attacco. Inferiori per numero e armamento, scompaginati dal cannoneggiamento, i reparti partigiani reagirono come poterono, ma presto la resistenza divenne insostenibile. Alle 13:30 il comandante Pasini ordinò il “Si salvi chi può”.

 

Da quel momento i combattimenti affrontati dai patrioti furono per mettersi in salvo e sfuggire alle maglie del rastrellamento. Fra i caduti in questa fase ci fu anche Lodovico Todesco, comandante della brigata “Italia Libera Campo Croce”, instancabile organizzatore dei primi gruppi di partigiani sul Grappa. Venne ucciso in località Busa dee Càvare il 22 settembre assieme ad altri quattro partigiani che per ultimi si ritiravano dopo aver coperto la fuga dei compagni.


Lapide Busa dee Cavare - Monte Oro - Borso del Grappa - Archivio Gianandrea Borsato

Conclusa la fase più cruenta del rastrellamento, che lasciò sul campo circa una quarantina di partigiani, bruciate le malghe e i fienili, fucilati i prigionieri catturati, scattò l’inganno ordito dall’SS-Obersturmführer Herbert Andorfer: in tutti i paesi ai piedi del Grappa furono affissi avvisi che promettevano un impiego nell’organizzazione Todt o un servizio nella contraerea ai giovani che spontaneamente si fossero presentati. In molti caddero nel tranello, talora spinti dai famigliari o dai compaesani.

 

Ebbe così inizio la più brutale delle reazioni: non soltanto la macabra impiccagione a Bassano, fucilazioni e impiccagioni si ebbero lungo tutta la fascia pedemontana attorno al Grappa. Non ci fu paese in cui i corpi dei giovani, consegnatisi spontaneamente, non venissero appesi, esposti in un osceno rituale attuato con lo scopo di terrorizzare la popolazione. Alla fine le cifre del massacro, sempre approssimate e mai sicure, superarono 340 vittime, cui va aggiunto un numero ancora imprecisato di deportati – circa 250 – molti dei quali non fecero più ritorno dai campi nazisti.

 

Numerose, fra le vittime, quelle senza nome, gettate in fosse comuni e mai ritrovate. Fra loro, la sorella e la madre del comandante Lodovico Todesco, Ester e Paolina. Arrestate il giorno seguente alla morte di Ludovico, furono condotte via a forza e caricate su un camion. Di loro non è mai saputo nulla. solo negli anni Novanta si scoprì la verità, grazie alla lettera di un austriaco, allora operaio della Todt, furono uccise e i loro corpi gettati in una colata di cemento di uno sbarramento anticarro in costruzione a Cismon del Grappa.

Nel dopoguerra al dolore per tante giovani vite spezzate si aggiunse l’amarezza per le sorti di numerosi colpevoli che poco o per nulla pagarono per le atrocità commesse: un trauma che ha segnato per decenni le comunità ai piedi del massiccio.


Monumento al Partigiano di Cima Grappa - Archivio Gianandrea Borsato

Oggi il monumento alla Resistenza di Cima Grappa sorge poco più in basso del ben più famoso e imponente sacrario della Grande Guerra, sopra il crinale che dalla cima digrada verso i pendii di malga Ardosa, in direzione di Crespano. È una statua in bronzo massiccia e rappresenta un uomo che si solleva per rompere i lacci che gli legano i polsi, la testa rivolta al cielo. È opera di Augusto Murer. A fianco, incise nella pietra, le parole di Andrea Zanzotto. Entrambi erano partigiani.

 

Ai piedi della statua altre parole, un estratto dall’ultima lettera di Mario Citton, partigiano fucilato a Marano Vicentino il 29 agosto 1944: … la mia sorte sembra ormai decisa. Le ore / che forse ancora mi rimangono sono poche. / Esortate tutti i miei compagni affinché mai / abbandonino la giusta via

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