A ottant’anni da due stragi nazifasciste. Quell’estate di violenza è un monito per chi sale in montagna in cerca di riposo e di pace
Il 12 agosto 1944 reparti delle SS compivano, con l’apporto di fascisti locali, una terribile strage nel paesino di Sant’Anna di Stazzema, in Versilia; lo stesso giorno a Passo Coe, sulle montagne tra Veneto e Trentino, i nazisti massacravano 14 partigiani e 3 malgari. Due storie che parlano di come molti territori montani, oggi meta di vacanze, siano anche «paesaggi contaminati» dalla violenza dell’uomo
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
È l’alba del 12 agosto 1944. Sant’ Anna di Stazzema, a 650 metri di quota, è un paesino della Versilia di poco più di trecento abitanti. Lassù si vive di agricoltura, di pastorizia, di piccoli lavori, come in ogni altro paese di montagna di quegli anni. Ma la guerra ha cambiato abitudini e modi di vivere rendendo tutto più difficile e precario: il paese è ormai diventato meta di sfollati in cerca di rifugio e protezione dai bombardamenti aerei nelle città e dopo l’8 settembre, con l’inizio della Resistenza, anche su queste montagne hanno cominciato a operare le bande partigiane.
Dopo il crollo della Linea Gustav e la liberazione di Roma le bande sono diventate una minaccia seria per i nazifascisti, con attacchi diretti e sabotaggi in tutto il centro-nord della penisola. Per questo il comando tedesco in Italia, a partire dal giugno 1944, intensifica in modo drastico la controguerriglia in tutti i territori occupati. E le Alpi Apuane sono di cruciale importanza nei piani tedeschi, rappresentando il limite occidentale di una nuova linea difensiva che avrà il compito di bloccare l’avanzata alleata, la Linea Gotica o “Linea Verde”.
Per completare le difese, ancora in fase di realizzazione, e impedire alle formazioni partigiane di sabotare i lavori e di disturbare le linee di rifornimento vengono organizzati, fra giugno e luglio, pesanti rastrellamenti in tutte le Apuane nonché emanati ordini di evacuazione delle zone interessate dalle opere difensive. Ma è impossibile spostare una massa tale di persone e inoltre resta il problema, per i comandi tedeschi, dell’appoggio della popolazione montana nei confronti dei partigiani. Il feldmaresciallo Kesselring, comandante in capo delle forze tedesche in Italia, ha dato in proposito disposizioni precise: quanti danno aiuto e ricetto ai “banditi” sono ugualmente colpevoli di fronte alla legge militare tedesca.
Si arriva così alla mattina del 12 agosto 1944, quando tre colonne tedesche della 16esima SS-Panzergrenadier-Division salgono a Sant’Anna: sono reparti scelti, formati da uomini fanatici, addestrati da anni di operazioni sul fronte orientale. Lo scopo dell’azione è uccidere e terrorizzare, senza pietà. La loro, come chiariranno le sentenze del processo iniziato sessant’anni dopo i fatti, è un’azione terroristica premeditata e pianificata, non un rastrellamento, non una rappresaglia. L’elaborazione del piano è tedesca, e tuttavia a ingrossare le fila ci sono, anche qui come altrove, fascisti italiani.
I soldati arrivano in paese, rastrellano le case e radunano la popolazione. Sono soprattutto donne e bambini perché gli uomini sono già partiti per i campi. Poi la strage: raffiche di mitra, bombe a mano per finire i feriti, fuoco alle stalle e alle abitazioni. Il bilancio di quel giorno è spaventoso: 560 persone massacrate, di cui solo 350 identificate. Fra essi 130 bambini.
Lo stesso giorno, a Passo Coe, in provincia di Trento, un altro eccidio, decisamente minore nelle proporzioni ma non meno brutale. Nella notte infatti i tedeschi, col supporto del Corpo di sicurezza trentino, milizia istituita nell’Alpenvorland, hanno dato avvio all’operazione “Belvedere”, un’azione di rastrellamento che ha lo scopo di ripulire dai partigiani la zona tra il Pasubio e Passo Coe, rendendo così sicure le vie di comunicazione fra Veneto e Trentino.
Anche qui una situazione simile a quella della Versilia: i tedeschi non possono tollerare le azioni alle spalle del fronte, che mettono a rischio collegamenti e rifornimenti alle truppe impegnate nel centro della penisola. Inoltre anche sulle montagne fra Veneto e Trentino sono avviati importanti lavori di fortificazione per quella che deve essere la “Linea Blu”, l’estrema difesa per bloccare gli Alleati. Di qui i rastrellamenti dei mesi di agosto e settembre al fine di ripulire il territorio dai partigiani, terrorizzare la popolazione civile e privare i “ribelli” di appoggio e basi sicure.
Il giorno precedente, ignara dell’operazione imminente, una squadra di partigiani garibaldini vicentini, al comando di Bruno Viola “Marinaio”, è salita al passo per ricevere un aviolancio di armi e munizioni dagli Alleati. Il meteo è avverso e così il gruppo trova rifugio per la notte nella malga. Alle prime luci del mattino un partigiano, lasciato di guardia, dà l’allarme. Ma è troppo tardi, la malga è ormai circondata. I partigiani si difendono come possono, per alcune ore. Sono infatti male armati, anche in previsione di ricevere il rifornimento. Esaurite le munizioni la squadra si arrende.
Seguono le percosse, le grida, gli ordini dei tedeschi. Con i partigiani vengono radunati altri quindici malgari rastrellati nella zona. Poi, la selezione. Quattordici partigiani e tre malgari sono addossati al muro della costruzione e massacrati. Fra essi il giovanissimo Giovanni Tessaro “Zampa”, classe 1925, cui Luigi Meneghello dedicherà righe struggenti in Libera nos a malo, parlando di lui nel ritratto dedicato a sua madre, la Cattinella, donna di servizio in casa Meneghello.
Scrive lo scrittore vicentino: «Giovanni era ormai un giovanotto, nel 1944 aveva diciannove anni, e la Cattinella domandava consiglio. Doveva presentarsi il ragazzo? Si poteva lasciarlo andare con questi partigiani con cui voleva andare? Alla fine Giovanni andò con questi partigiani, col nome di battaglia di “Zampa”, ed era col reparto della Malga Zonta la notte del 12 agosto. C’è una fotografia dei quindici o venti ragazzotti in fila davanti alla malga, colle mani in alto, un momento prima che i tedeschi cominciassero a sparare: Giovanni è il primo della fila, in primo piano. Sembra stupito, come se non capisse bene la natura del gioco: ha un’ecchimosi sul viso, probabilmente causata dal calcio di un mitra».
Sant’Anna di Stazzema e Malga Zonta: due eccidi diversi per proporzioni e modalità, eppure due episodi di violenza uniti da un legame che va oltre la data e le medesime dinamiche storiche. Perché entrambi ci parlano, oggi, non soltanto del dovere della memoria, del bene della pace e dei valori, sanciti dalla Costituzione, che fondano il nostro vivere insieme, ma anche del rapporto fra essere umano e paesaggio. Questi infatti, come molti altri siti delle nostre montagne, sono «paesaggi contaminati», per citare un’espressione coniata dallo scrittore e giornalista austriaco Martin Pollack. Paesaggi che vanno dunque letti e compresi. E rispettati. Per le vittime della violenza di allora, ma anche per noi oggi, che sulle montagne cerchiamo il riposo e la serenità spesso distratti e dimentichi di quanto è stato.