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Ambiente

Zaia dà la colpa alle nutrie per le alluvioni, gli esperti: "Accusare la fauna selvatica del dissesto è pura disinformazione"

Gli eventi alluvionali delle scorse settimane che hanno coinvolto vaste aree d’Italia, dell’Europa Centrale, e del Giappone, ci hanno sbattuto in faccia per l’ennesima volta la fragilità intrinseca del nostro territorio, ma per qualcuno sembra essere colpa delle tane delle nutrie. Un commento degli esperti su questa affermazione

di
Sofia Farina
26 settembre | 15:40
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Gli eventi alluvionali delle scorse settimane che hanno coinvolto vaste aree d’Italia, dell’Europa Centrale, e del Giappone, ci hanno sbattuto in faccia per l’ennesima volta la fragilità intrinseca del nostro territorio, ma per qualcuno sembra essere colpa delle tane delle nutrie.

 

“Magari il problema fosse solo l'acqua che sormonta gli argini. Il problema è che si spaccano. Noi vogliamo dichiarare guerra a nutrie, tassi, istrici e volpi che stanno distruggendo il patrimonio idraulico del Veneto” con queste parole il Governatore del Veneto, Luca Zaia, ha commentato la situazione del nord-est dopo il passaggio della tempesta Boris. Sarebbero le nutrie, secondo il Presidente di una regione fortemente colpita dagli impatti del cambiamento climatico, ad essere ''causa'' delle alluvioni che la interessano.

 

"Le parole del Governatore Zaia si inseriscono in un quadro di criticità ben più ampio, come è evidente, e risulta perciò alquanto riduttivo e spericolato ricondurre i fatti accaduti ad una causa prima zoologica" commentano Marta Crivellaro e Niccolò Ragno, ricercatori in morfodinamica fluviale e Sebastiano Piccolroaz e Guido Zolezzi, Professori di Idraulica dell'Università di Trento. "Uno degli elementi principali di criticità che caratterizza la rete fluviale veneta, come dice correttamente il governatore, è proprio il carattere pensile dei fiumi - spiegano i ricercatori - tipico in generale quei corsi d’acqua europei, che sono stati oggetti di profondi stravolgimenti del loro carattere originario".

 

Sorge spontaneo chiededersi cosa vuol dire che un fiume è "pensile" e come lo diventi. Spiegano gli esperti: "Specialmente negli anni ‘50 e ‘60 c’era la convinzione che il restringimento e la rettificazione degli alvei fluviali aumentassero la protezione idraulica del territorio, aumentando le pendenza media del fiume (attraverso la rettifica) e diminuendo conseguentemente la profondità dell'acqua nel canale. Gli argini diventavano quindi strumento di difesa idrogeologica, ma anche strumento per lo sviluppo di attività economiche agricolo-industriali e costruzione residenziale nelle piane originariamente occupate dal corso d’acqua durante eventi di piena. La pianura padana è un chiaro esempio di tale trasformazione territoriale".

 

Il problema, continuano i ricercatori, è che "la progettazione di questi interventi trascurò, anche per conoscenze limitate del tempo, il comportamento morfologico dei fiumi, che non è solamente determinato dall’acqua che vi scorre, ma è legato anche a deposito ed erosione dei sedimenti trasportati dalla correnti, che rimangono entro l’alveo se in presenza di arginature, alimentando l’elevarsi del corso d’acqua rispetto al piano della campagna, specialmente in bassa pianura".
 

Quando si parla di fenomeni morfologici, spiegano gli ingegneri idraulici, è bene ricordare che "seguono un andamento autonomo da quello delle società umane e per questo motivo la risposta morfologica alle arginature e rettificazioni del secolo scorso è avvenuta gradualmente negli anni e oggi ci mostra come in diversi luoghi queste strutture abbiano creato un senso di “falsa sicurezza” tale da consentire la costruzione di abitazioni e la coltivazione di colture a ridosso degli argini stessi".
 

Tornando alle parole di Zaia sul contesto del Veneto è necessario spiegare che "l’allagamento di aree urbane o di campagna generalmente avviene per rottura o per tracimazione dell’argine, come avvenuto per l’Avenale a Castelfranco Veneto qualche giorno fa e anche che è noto che la presenza di tane e cunicoli nelle arginature ne indebolisca la stabilità e aumenti la probabilità di crolli e fenomeni erosivi durante gli eventi di piena, come anche accertato nel caso degli eventi alluvionali nel 2014 su Secchia e Panaro". Tuttavia, non sono le tane le uniche possibili cause di crollo arginale: "Processi erosivi dovuti al fluire di acqua, sedimenti e detriti, fenomeni di sifonamento o infiltrazioni possono infatti provocare la rottura arginale al di là della presenza delle tane".
 

"Inoltre è bene ricordare che per ogni opera di difesa del territorio rimane sempre una componente di rischio residuale - commentano i ricercatori - che è da rivalutare non solo alla luce dei progressi nella comprensione dei fenomeni morfologici fluviali, ma anche della consapevolezza verso gli effetti dei cambiamenti climatici, in quanto le opere idrauliche, tra cui le arginature, vennero a loro tempo progettate partendo da criteri e strumenti riferiti ad un contesto climatico differente da quello attuale".

 

Anche Claudio Celada, direttore Area Conservazione della Natura di Lipu e Birdlife Italia, sottolinea il rischio di distogliere l'attenzione dai reali problemi del nostro tempo così: "Dopo anni e anni di cementificazione della pianura veneta, puntare il dito sulla fauna selvatica, come colpevole del dissesto territoriale, significa disinformare e negare quanto sta succedendo in termini di cambiamenti climatici e di catastrofi naturali ad essi correlati".

 

"Se la Regione Veneto pensa di adattarsi al clima che cambia eradicando nutrie, volpi e istrici allora nei prossimi anni dovremo ripetere periodicamente la conta dei danni a persone e abitazioni - continua Celada -. Se davvero vogliamo ridurre i rischi di catastrofi naturali per la gente del Veneto si intraprenda un serio e ambizioso programma di ripristino della natura, come previsto dalla Nature Restoration Law recentemente approvata in sede europea mettendo insieme le competenze di quanti davvero possono contribuire alla difficile opera di riduzione dei rischi".

 

Ma quindi, abbiamo degli esempi di successo a cui ispirarci per una gestione migliore dei nostri fiumi? Il team di ricercatori dell'Università di Trento risponde citando il Prof. Giovanni Seminara, che in seguito agli eventi alluvionali del 2019 che coinvolsero prevalentemente il Nord-Italia, scriveva: “Adattarsi ai cambiamenti climatici richiede più ingegneria, una nozione elementare e ovvia per i cittadini di paesi come l’Olanda, ma che non decolla nel nostro paese, immerso in un dibattito surreale ed incolto, in cui ideologicamente si contrappone la difesa dell’ambiente alla difesa dall’ambiente”. Inoltre, aggiungono: "Un esempio virtuoso in tal senso è la capitale austriaca, dove con lungimiranza è stato dato più spazio al Danubio, con un canale secondario che funge da invaso in caso di evento estremo, dimensionato in modo da poter laminare una piena con tempo di ritorno di 5000 anni".

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