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Ambiente

Perché la turistificazione dei "borghi" non salverà le montagne dallo spopolamento: "Il turismo non rende accogliente un posto, non se ne prende cura"

Le politiche di promozione spingono da tempo sul turismo dei cosiddetti “borghi”, anche come forma di alleggerimento dell’overtourism che preme sulle destinazioni maggiori. Ma come analizza il giornalista Alex Giuzio nel suo ultimo libro dedicato al “turismo insostenibile”, il rischio è quello di aumentare ulteriormente la pressione turistica, snaturando l’autenticità dei territori, senza invertire la rotta dello spopolamento delle aree interne

di
Silvia De Bernardin
20 gennaio | 18:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Durante le feste è arrivata alla redazione di L’AltraMontagna la lettera di una lettrice che raccontava come, in quei giorni, il suo paese – un piccolo centro del Friuli di 150 abitanti – fosse preso d’assalto dai turisti, che ogni anno accorrono in massa per partecipare a una manifestazione sui presepi rendendo la vita impossibile ai residenti. È un fenomeno in atto da tempo che, dalle campagne toscane – le prime in ordine di tempo a subire gli effetti di queste forme di turismo – si sta espandendo un po’ ovunque nei più e meno noti paesi delle aree interne, trasformati in “borghi” a uso e consumo del turismo mordi-e-fuggi.

Ma quali sono i meccanismi dietro all’operazione di turistificazione dei cosiddetti borghi? Servono ad arginare lo spopolamento o solamente ad acuire le distorsioni di un turismo diventato in larga parte “insostenibile”?

 

Abbiamo girato queste domande ad Alex Giuzio, giornalista che si occupa di temi ambientali ed economici legati al turismo, che ha appena pubblicato il libro Turismo insostenibile. Per una nuova ecologia degli spazi e del tempo libero (Altreconomia, 2024): un’analisi puntuale dei problemi del turismo globale – dalle coste antropizzate alle montagne risucchiate dalla monocoltura dello sci alle città sacrificate all’overtourism – e delle sue possibili soluzioni.

 

 

I nostri lettori ci raccontano di “borghi” presi d’assalto, anche in località finora poco note. Cosa sta succedendo nei paesi italiani?

 

Succede che si è pensato di “salvare” i paesi delle aree interne in via di spopolamento utilizzando la ricetta del turismo – che è quella alla quale si ricorre sempre in Italia. In alcune realtà, questo concetto di “borgo” è stato creato a tavolino, attraverso operazioni di marketing e una narrazione che è passata per giornali turistici e trasmissioni televisive, prima ancora che dalla rete e dai travel influencer. Un’idea che, con la pandemia, si è alimentata anche dell’aspirazione al ritorno a una dimensione più piccola e rurale. Il punto è che il concetto di “borgo” è una scatola vuota nella quale si replicano gli stessi contenuti metropolitani, con ristoranti e osterie, sagre ed eventi per attirare i flussi in certi momenti dell’anno, ma in cui mancano i servizi essenziali: luoghi nei quali si va nel fine settimana per staccare dalla quotidianità, ma in cui se vengono meno i turisti si crea il vuoto. E il problema dello spopolamento rimane.

 

 

È la criticità delle monocolture economiche.

 

Il turismo non rende accogliente un posto, non se ne prende cura. Prendersi cura di un luogo è renderlo abitabile e vivibile per chi ci risiede tutto l'anno dotandolo dei servizi essenziali. La monocoltura economica non è mai una buona cosa perché non dà alternative. Puntare solo sul turismo è un errore – ormai dovremmo saperlo – perché rende quel luogo dipendente da una domanda che può venire meno da un momento all'altro, come è stato con la pandemia. E se il territorio è stato desertificato, non ci sono alternative economiche.

 

 

Eppure, le politiche di promozione turistica stanno puntando molto sulle destinazioni cosiddette secondarie, tra cui i borghi appunto, anche come forma dichiarata di alleggerimento dell’overtourism sulle destinazioni principali. Ma questo non rischia di creare un cortocircuito spostando semplicemente masse di turisti da punto all’altro?

 

È un concetto che abbiamo sentito più volte dalla Ministra del Turismo Santanché: quando non si nega il fenomeno dell’overtourism, si dice che riguarda solo alcune grandi città e che la soluzione è spostare i flussi altrove. E non sono solamente parole, visto che c’è stata una precisa scelta di investimento, con un miliardo di euro del PNRR destinato proprio all’attrattività dei borghi. Il punto è che sono sempre di più le persone che viaggiano – e questo è un diritto che nessuno vuole mettere in discussione – e sempre di più sono quelle che vogliono vedere gli stessi luoghi. Chi vuole visitare Firenze continuerà a farlo e non la sostituirà certamente con un qualsiasi borgo toscano. Così si corre solamente il rischio di aumentare ulteriormente i flussi e di compromettere altri luoghi.

 

 

Uno dei punti sui quali si basa la politica turistica di promozione dei borghi è la loro presunta autenticità. Ma i borghi oggi sono luoghi “autentici”?

 

Soprattutto da parte di chi vive nelle grandi metropoli, c’è oggi la ricerca di una certa autenticità della vita comunitaria. Una dimensione che abbiamo riscoperto durante la pandemia, quando ci siamo resi conti che forse non stavamo così bene chiusi nelle nostre piccole case nelle nostre grandi città. Però, quando quella dimensione si trasforma in risposta alla domanda turistica, rischia di mercificarsi e perdere originalità. Perché, per rispondere ai grandi numeri, ciò che è artigianale non può che diventare industriale e standardizzato. È un cortocircuito che non si risolve: l'unico modo per preservare l'autenticità e la tranquillità di certi posti è tenere fuori il turismo globale.

 

 

In questo discorso, c’è un soggetto di cui ci si dimentica sempre quando si parla del “turismo dei borghi”: le persone che li abitano. Qual è il loro ruolo?

 

Spesso sono gli amministratori locali a decidere di puntare sul turismo: una scelta che magari riempie le casse pubbliche, ma della quale poi non si percepisce qual è il reale ritorno economico per le comunità. Pensiamo alla famosa tassa di soggiorno, che ormai è applicata quasi ovunque e non si sa mai bene come venga spesa. Chiaramente col turismo c’è un apporto economico, che però va nelle mani di chi ha attività legate al turismo mentre tutti gli altri non ne vedono il beneficio. Il ruolo delle comunità credo sia, innanzitutto, quello di cercare di uscire dall'illusione che il turismo possa “salvare” i territori e pensare che siano, invece, proprio le comunità locali a potersi prendere cura dei luoghi stessi. A San Leo, nel riminese, dove nel centro storico sono rimasti 60 residenti, gli abitanti hanno preso direttamente in gestione i servizi essenziali, come il negozio di alimentari che rischiava di chiudere, con la formula della cooperativa di comunità. È un esempio di come i cittadini possano salvare i paesi dallo spopolamento molto più del turismo. In Appennino, dove in molti contesti l’economia legata all’industria dello sci è collassata perché non nevica più, ci sono tanti esempi di queste cooperative di comunità che si sono fatte carico dei servizi finendo, poi, anche per attirare forme di turismo meno barbaro e impattante.

 

 

Nel tuo libro si parla molto anche di lavoro e della necessità di lavorare meno, anche in chiave turistica.

 

Se si lavorasse meno, si avesse più tempo libero, si vivesse meglio nei luoghi dove abitiamo abitualmente, probabilmente non avremmo questo desiderio di evadere a migliaia di chilometri di distanza come facciamo adesso col turismo mordi-e-fuggi, che con i voli low cost ci porta a consumare poche notti molto lontano. Magari, saremmo più portati a visitare i luoghi e le comunità che abitiamo e quelli vicini, che non abbiamo mai il tempo di conoscere. Continueremmo probabilmente a voler vedere anche luoghi lontani, ma senza la frenesia compulsiva di “collezionare” viaggi e destinazioni. Chiaramente, questo significa mettere in discussione un intero sistema economico.

 

 

Con la pandemia e lo sdoganamento dello smart working, in effetti, si è iniziato a lavorare, se non meno, diciamo diversamente. È un processo che può fare bene alle aree interne?

 

Nei borghi si è iniziato anche ad attirare giovani smart workers che possono svolgere professioni per le quali basta una connessione wi-fi e poco più. Ma, come per il turismo, non può essere questa una soluzione sufficiente da sola per evitare lo spopolamento perché ci sono livelli di servizio necessari in una comunità per i quali le professioni da smart working non bastano.

 

 

Alla fine del libro scrivi che la via per provare a superare gli effetti del troppo turismo è accettare la fine stessa del turismo, passando dall’overtourism al “beyond the tourism”: cosa significa?

 

“Beyond the tourism” significa, in qualche modo, andare “oltre il turismo” per come lo abbiamo conosciuto finora. In tempi di crisi climatica, ci sono forme di turismo che vanno abbandonate: non possiamo più permetterci enormi quantità di voli aerei e crociere utilizzate per fare vacanze brevi molto lontano. Serve ridurre la mobilità inquinante e agire sulla questione culturale capendo che il turismo è, prima di tutto, un incontro con altri luoghi e altre persone, che non conosceremo mai davvero andando per pochi giorni, insieme ad altre migliaia di persone, negli stessi luoghi, nello stesso momento. Abbiamo bisogno di una dimensione del turismo più lenta e più lunga, di tornare più volte nello stesso luogo per conoscerlo meglio, come si faceva una volta con la villeggiatura.

 

 

Anche nei “borghi”…

 

Sì, è l’idea di un turismo di prossimità, più vicino, più lento, di ritorno, senza che i borghi vengano per questo turistificati, ma tutelandone la dimensione autentica di comunità investendo, in primo luogo, sui servizi per chi ci abita.

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