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Caccia ai traditori: il processo di Verona e la “giustizia” nella Repubblica sociale italiana

L’11 gennaio 1944 si concludeva con la fucilazione di 5 imputati il più importante processo ai “traditori del 25 luglio”, inaugurando apparentemente la resa dei conti dei fascisti repubblicani con chi aveva voltato le spalle al regime. In realtà, poi, l’attività dei Tribunali speciali si indirizzerà verso gli oppositori, evitando di affrontare le responsabilità più profonde dei dirigenti e di Mussolini. Continua la rubrica “Cos’era il fascismo”

Di Davide Leveghi - 09 gennaio 2022 - 12:07

In ogni capoluogo di provincia è istituito un Tribunale Rivoluzionario con il compito di giudicare: a) i fascisti che hanno tradito il giuramento di fedeltà all’Idea ed al suo Capo; b) coloro che dopo il colpo di Stato del 25 luglio 1943-XXI hanno comunque, con parole o con scritti o altrimenti, denigrato il fascismo, il suo Capo e le sue istituzioni; c) coloro che hanno compiuto comunque violenze contro la persona e le cose dei fascisti o appartenenti alle organizzazioni del fascismo o contro le cose o i simboli di pertinenza dello stesso” (dal decreto del 27 ottobre 1943 per l’istituzione dei Tribunali straordinari)

 

TRENTO. L’11 gennaio 1944, alle porte di Verona, venivano fucilati alla schiena alcuni dei “traditori del 25 luglio”, responsabili agli occhi del neonato fascismo repubblicano di aver contribuito a metter fine a vent’anni di regime. Si consumava, così, il principale episodio della “sindrome del tradimento” e del diffuso sentimento di vendetta riversato su quegli elementi di comando dimostratisi “infidi, incapaci, opportunisti” (Mimmo Franzinelli, Storia della Repubblica Sociale Italiana 1943-1945).

 

Creata per volontà dei tedeschi alla fine del settembre ’43 – quando la parte più meridionale del Paese era stata liberata e l’esercito, in sfascio, entrato nella fase della “cobelligeranza” con gli Alleati - la Repubblica sociale italiana nacque con l’obiettivo di riportare in vita il fascismo delle origini, affidando la guida ad un Mussolini libero (QUI l’articolo) ma profondamente prostrato. “Coacervo di forze e di istituzioni che rivaleggiavano fra di loro, sia sul piano politico sia sul piano militare” (Emilio Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione – vedi QUI e QUI degli approfondimenti), agì in forma subordinata nella parte centro-settentrionale del Paese, perdendo progressivamente terreno a favore delle forze alleate e del movimento partigiano. Nel mentre, però, impose al di là dei vincoli la propria autorità, improntata su una versione estremizzata del totalitarismo fascista (QUI l’articolo).

 

In questo quadro, quindi, si inserì la caccia ai principali responsabili del “voltafaccia” del 25 luglio passato, con cui si pose fine al regime fascista (QUI l’articolo). Stampa e propaganda guidarono la campagna affinché si punissero i traditori e il governo non tardò a produrre le norme giuridiche (retroattive) per agire in tal senso. Fu così che il 27 ottobre ’43 nacquero i Tribunali straordinari, pensati per giudicare i “fascisti che hanno tradito” e gli antifascisti. Scenario del più importante processo ai danni di “traditori dell’Idea e del Suo Capo” fu Verona, centro dell’estremismo fascista.

 

Qui, infatti, si tenne il sommario procedimento nei confronti dei membri del Gran Consiglio favorevoli all’ordine del giorno Grandi, con cui Mussolini venne deposto. Solo 6 dei 19 accusati sedettero però sul banco degli imputati: gli altri 13, infatti, erano riusciti a mettersi in salvo e a sfuggire al desiderio di vendetta dei fascisti repubblicani. Principale volto del processo fu l’ex ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, genero di Mussolini (aveva sposato la sua primogenita Edda), consegnatosi imprudentemente nelle mani dei tedeschi.

 

Ma non solo. Tante erano le figure di primo piano coinvolte: da Emilio De Bono, quadrumviro della Marcia su Roma, all’ex ministro delle Corporazioni Tullio Cianetti, dall’ex presidente della Confederazione dei lavoratori dell’industria Luciano Gottardi all’ex segretario amministrativo del Pnf Giovanni Marinelli (noto ai più per il coinvolgimento nel delitto Matteotti, QUI l’articolo), passando per l’ex ministro dell’Agricoltura Carlo Pareschi. In latitanza, invece, si trovavano tra gli altri Dino Grandi, ras bolognese e più volte ministro, Giuseppe Bottai, fra le altre cose ex ministro dell’Educazione, Cesare Maria De Vecchi, anch’egli quadrumviro della Marcia su Roma, e Luigi Federzoni, ex ministro degli Interni nel cuore degli anni Venti e per un decennio presidente del Senato.

 

Il clima in cui si tenne il processo, come detto, era infiammato dall’ansia di rivalsa verso i traditori. I delegati presenti in aula non mancarono di inneggiare alla morte di Ciano e degli altri, esito sostanzialmente già scritto – per volontà dei tedeschi e della base repubblicana – ancor prima dell’ingresso degli imputati in Tribunale. A presiedere il processo fu il giudice istruttore Vincenzo Cerosimo, ex squadrista e volto di rilievo del Tribunale speciale durante gli anni del regime. Come pubblico accusatore, invece, la scelta ricadde sull’estremista Andrea Fortunato, insegnante di discipline giuridiche poi divenuto celebre per l’arringa finale: “Così ho gettato le vostre teste alla storia d’Italia – disse rivolgendosi agli imputati – fosse anche la mia, purché l’Italia viva” (Franzinelli).

 

Tutti gli imputati, nel corso dei tre giorni di dibattimento, rivendicarono con forza la propria fedeltà al “duce”, minimizzando quanto avvenuto a luglio. Da parte sua, Cianetti l’unico fu in grado di scampare alla fucilazione grazie ad una lettera inviata il 26 luglio a Mussolini e carica di pentimento. Rispetto agli altri, dunque, egli ricevette 30 anni di carcere.

 

La condanna, intanto, fu esemplare: a tutti gli imputati – con l’eccezione dell’ex ministro delle Corporazioni – fu inflitta la pena di morte. In contumacia per coloro che si erano messi in salvo, la sentenza divenne invece effettiva per Ciano, De Bono, Gottardi, Marinelli e Pareschi. A niente servirono le pressioni della figlia Edda su Mussolini affinché venisse risparmiato il marito. Il capo della Rsi, infatti, ben sapeva che nazisti e papaveri del Partito fascista repubblicano immaginavano una sola soluzione: la fucilazione dei traditori. Nondimeno, il timore dell’accoglimento delle istanze di grazia non fu mai fatto pervenire nella mani di Mussolini.

 

La sentenza venne attuata alle 9.20 dell’11 gennaio 1944. Condotti dal carcere degli Scalzi al poligono di tiro di Forte Procolo, i cinque imputati – fra il giubilo dei presenti e “l’occhio” della cinepresa – vennero fucilati alla schiena. Ciano, in particolare, fu finito con due revolverate alla tempia dal comandante del plotone d’esecuzione Nicola "Nino" Furlotti. L’esecuzione, nondimeno, fu salutata come “suprema necessità” dalla stampa: “La giustizia – scriveva nell’editoriale il direttore del Corriere della Sera Ermanno Amicucci – li ha raggiunti e li ha colpiti. Come doveva. Ora la Nazione riprende la sua marcia, sollevata dall’ingombro dell’ignominia”.

 

Quello di Verona non fu certo l’unico grande processo condotto dai Tribunali speciali. L’ansia vendicatrice travolgerà infatti anche altre eminenti figure del partito, della società e dell’esercito. Il rischio di minare l’autorità di Mussolini, però, mitigherà il clima sgonfiando la spettacolare giustizia di Stato. Specialmente in materia militare, processare i responsabili dei fallimenti nei vari fronti di guerra avrebbe finito inevitabilmente per attestare le colpe del “duce”.

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