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“Il Paese è una jungla”: bande, "sbandati" e polizie speciali fasciste nella Repubblica sociale italiana

La rubrica “Cos’era il fascismo” prosegue con un altro approfondimento sul variegato mondo delle formazioni repubblicane fasciste, proliferate nel caos della guerra dopo lo sfascio del regime. Più o meno libere di agire, bande e polizie speciali diverranno tristemente note per una gestione brutale dell’ordine pubblico

Di Davide Leveghi - 05 dicembre 2021 - 12:46

La legge del taglione deve essere la nostra legge. Il dente per dente e l’occhio per occhio, è ancora poco. La rappresaglia deve essere in proporzioni geometriche al male morale che le forze antinazionali fanno alla nostra Patria. L’ora delle squadre è suonata!” (Franco Colombo in Siam fatti così!, periodico della Legione Muti, 6 luglio 1944)

 

Nel nome di Dio e dell’Italia giuro di eseguire gli ordini del duce e di servire con tutte le mie forze e, se necessario, col mio sangue, la causa della Rivoluzione Fascista” (dal giuramento degli iscritti al Partito Fascista Repubblicano)

 

TRENTO. “Proseguire la guerra a fianco dell’alleato tedesco” e “lavare l’onta del tradimento”. Sono questi i cardini attorno a cui, nelle convulse settimane seguenti all’8 settembre 1943, si vengono costituendo svariate formazioni militari e poliziesche, a servizio dell’occupante nazista e della nuova entità statale della Repubblica sociale italiana. Il loro compito? Dedicarsi ad attività di polizia, visto che i tedeschi, diffidenti verso le motivazioni belliciste dei soldati italiani, rallentano la costituzione di un nuovo esercito repubblicano (QUI l’articolo).

 

Non è un caso che le divisioni ricostituite ed addestrate in Germania vennero alla fine adoperate per azioni di ordine pubblico - fra l’ostilità, molto spesso, della popolazione civile – arrivando ad inglobare anche la Guardia nazionale repubblicana, organizzazione nata proprio con funzioni di polizia (QUI l’articolo). Accanto alle istituzioni più tradizionali, così, fiorirono numerose formazioni, figlie del vecchio squadrismo, del fanatico entusiasmo dei giovanissimi, nati e cresciuti durante il regime, e del caos portato dalla guerra.

 

Scrive lo storico Mimmo Franzinelli in Storia della Repubblica Sociale Italiana 1943-1945: “La sovrapposizione di reparti regolari e formazioni ‘speciali’ contraddistinte da metodi banditeschi è tra i punti più controversi della Rsi. Il problema dell’illegalismo rimarrà irrisolto, anche perché, oltre a soddisfare le ambizioni personali dei tanti capitani di ventura, sono i tedeschi a manovrare polizia speciali e bande autonome: gli occupanti diffidano delle questure, considerate infiltrate dagli antifascisti”.

 

L’Italia dell’autunno 1943 è in preda al disordine. Gli Alleati cominciano la loro risalita, i tedeschi impongono il loro controllo sulla penisola e al tempo stesso spingono affinché si crei una nuova autorità per combattere la resistenza interna. Dalle frequenze di Radio Monaco, il 17 settembre, Benito Mussolini – fresco di liberazione dal Gran Sasso, ma fortemente prostrato dagli esiti del conflitto e dalla caduta del regime (QUI l’articolo) – annuncia la nascita di uno “Stato nazionale e sociale nel senso più lato della parola”, “fascista nel senso delle nostre origini”.

 

Oltre ai primigeni valori evocati – fissati nel Manifesto di Verona – il “fascismo delle origini” trova modo di esprimersi anche attraverso l’ampio ricorso allo squadrismo. Il contesto è radicalmente diverso, ma gli uomini – in parte – gli stessi. I richiami continui. “L’ora delle squadre è suonata – incalza il comandante Franco Colombo dalle pagine del periodico Siam fatti così! – la nostra Legione, poderoso organismo a carattere militare, sempre più affinata nello spirito e completa nelle armi, rappresenta oggi il maggiore strumento di offesa e di difesa contro il quale si infrangeranno le ondate dell’antifascismo. Arditi della «Ettore Muti»: a noi!”.

 

La Legione “Ettore Muti” si autorappresenta addirittura evocando gli Arditi, formazioni d’assalto della Grande Guerra, poi centrali nella costituzione dei primi Fasci e nell’esperienza delle squadre d’azione. Nata a Milano per volontà dello squadrista Francesco, detto Franco, Colombo, militante della squadra d’azione “Randaccio”, dirigente di un gruppo rionale espulso dal Pnf nel ’27 per indegnità morale, la “Muti” venne istituita nel settembre ’43 per “rigenerare il fascismo nel nome dell’eroe ucciso a tradimento dai badogliani” (Franzinelli).

 

Sovvenzionata dal Ministero dell’Interno, godette di gran libertà d’azione, dedicandosi in particolare alla ricerca di prigionieri di guerra fuggiaschi, alle irruzioni armate nelle fabbriche in caso di sciopero e ai rastrellamenti partigiani. Indisciplinati, fanatici, brutali – celebre il loro ricorso alla tortura – i legionari della Muti vedono combattere fianco a fianco squadristi della vecchia guardia con nuove leve. Un terzo di loro ha meno di 24 anni, il 12% addirittura ne ha meno di 17. La sua composizione media contava su 1500 uomini (Franzinelli).

 

Utilizzati dai tedeschi come manodopera nei “lavori sporchi”, vedi la fucilazione di 15 prigionieri politici a Piazzale Loreto nell’agosto 1944 (QUI l’articolo), i legionari della Muti finirono per cozzare con altre entità dedite – a loro modo - all’ordine pubblico. Celebre fu infatti la rivalità con la Banda Koch, conclusa con lo scioglimento di quest’ultima.

 

Formatasi attorno alla figura di Pietro Koch, l’omonima banda divenne ben presto nota in tutta la penisola per il suo sadismo e la cupidigia della cinquantina di uomini che la composero. Vestiti da dandy, eleganti e lussuriosi, gli squadristi della Koch vivevano la propria missione con avventurismo ed eccessi, offrendo così una preziosa sponda agli occupanti tedeschi, che se ne servirono per alcune clamorose e spregiudicate operazioni a danno anche di strutture ecclesiastiche colpevoli di dar rifugio ad antifascisti. Con brutalità e astuzia, gli uomini della Koch impiegano scientificamente la tortura, fisica e psicologica, per spingere i detenuti politici a tradire. Così, ad esempio, viene catturato l’azionista Pilo Albertelli, poi ucciso alle Fosse Ardeatine. A tradirlo un compagno di partito, caduto in trappola e costretto sotto minaccia di morte a consegnare il professore.

 

Protetta dal comandante della Gestapo a Roma, colonnello Herbert Kappler, la Koch fu in grado di mettere le mani su oltre 600 antifascisti, molti di questi d’alto rango. Tra Roma e Milano, riuscì infatti a catturare il nucleo centrale del Partito d’azione e dei Gap della capitale, fra cui alcuni appartenenti al gruppo responsabile dell’attentato di via Rasella, e dei dirigenti del socialismo lombardo. La sua predisposizione a mescolare violenza politica con criminalità comune, tuttavia, fu alla base dello scioglimento, decretato fra le proteste di Kappler nel dicembre del ’44.

 

Principale erede dello squadrismo delle origini, invece, furono le Brigate nere. Nate nel giugno del ’44 per volontà del segretario del Pfr Alessandro Pavolini, furono il braccio armato del partito, che poté effettivamente contare – al di là delle sparate propagandistiche – su quasi 12mila uomini, divisi in 41 brigate numerate progressivamente e chiamate – come stabilito nel decreto costitutivo - con il nome “di un Caduto per la Causa del Fascismo Repubblicano”. Protagoniste di rastrellamenti ai danni di renitenti alla leva e partigiani, pagarono a caro prezzo “l’impiego di metodi banditeschi nei confronti della popolazioni, specie nelle campagne e nelle vallate”, subendo “nei giorni della sconfitta, vendette ed esecuzioni capitali” (Franzinelli).

 

La proliferazione di gruppi armati, da parte sua, preoccupò non poco Mussolini, incapace e tutt’altro che convinto, in realtà, a porre fine a questa degenerazione di caos e violenza. Dal diario del suo segretario particolare Giovanni Dolfin, si può estrapolare uno sfogo del “duce”, che a riguardo, l’1 dicembre del ’43, si lasciò andare ad un “il Paese è diventato una jungla”. Su tutto il territorio della Repubblica sociale – e a Trieste, formalmente ancora sotto il controllo italiano ma in realtà di fatto annessa al Reich nella zona cuscinetto del Litorale adriatico – è infatti un moltiplicarsi di bande e polizie speciali.

 

Nel capoluogo giuliano opera la Banda Collotti, costituita ancora nel ’42 per reprimere l’antifascismo slavo, nota per l’ampio ricorso alle sevizie dei prigionieri. Fu in grado, tra l’altro, di smantellare il Cln triestino. Tra Firenze e Roma, invece, si mosse la squadra di Giuseppe Bernasconi, picchiatore de “La Disperata”, formazione storica dello squadrismo fiorentino. Dalla capitale a Milano, ancora, operò il Centro informativo politico di Mario Finizio, protagonista di arresti, sequestri e torture. A Pavia, infine, era attivo lo squadrone di Alberto Alfieri e Felice Fiorentini, al servizio dei tedeschi nell’azione antipartigiana, condotta con metodi terroristici e straordinaria crudeltà.

 

Un’ultima formazione, infine, merita menzione. Si tratta della banda Carità, nata attorno alla figura di Mario Carità. Squadrista milanese della prima ora, capeggiò una delle organizzazioni più tristemente note per i propri successi in tutto il territorio della Repubblica sociale, ai danni di ebrei e antifascisti. È così che il Reparto servizi speciali, nome formale di quella più comunemente conosciuta come banda Carità, riuscì a infiltrarsi nel movimento resistenziale, arrivando a disarticolare il Cln toscano. A fucilare i prigionieri, dopo interminabili sessioni di tortura, è spesso lo stesso Carità, che proprio per questo guadagna grande fama.

 

Attiva agli sgoccioli del conflitto nelle province di Rovigo, Vicenza e Padova, si dedica alacremente allo smantellamento del Cln veneto. Ma la guerra sta per finire ed il 26 aprile il Reparto elimina con il fuoco ogni traccia dei propri archivi. Carico di beni preziosi e denaro, Carità prende la via del Brennero. Individuato sull’Alpe di Siusi dalla polizia militare alleata, cadrà in una sparatoria la notte del 18 maggio 1945.

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