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Dalla caduta all’ascesa: uno sguardo retrospettivo sul “duce” del fascismo Benito Mussolini

Il 25 luglio 1943 il Gran Consiglio del fascismo sfiduciava Benito Mussolini, ponendo fine al Ventennio. Gli esiti infausti della guerra combattuta a fianco dell’alleato tedesco, i bombardamenti sulle città italiane e lo sbarco angloamericano in Sicilia spostarono gli equilibri, convincendo l’esercito e la monarchia a scaricare il “duce”. L’astro del movimento fascista prima e del regime poi cadeva: ma il suo era sempre stato un dominio incontrastato?

Di Davide Leveghi - 25 luglio 2021 - 11:11

TRENTO. Preparato nelle travagliate settimane precedenti a quel 24 luglio, in cui il Consiglio del fascismo si doveva riunire per consultarsi sullo stato del conflitto, l’Ordine del giorno Grandi avrebbe avuto conseguenze decisive sulla storia italiana. Durata diverse, infinite ore, la seduta si sarebbe conclusa attorno alle 2.30 del giorno successivo con la votazione della sfiducia al capo del regime Benito Mussolini: 19 furono i voti favorevoli alle sue dimissioni, a fronte di 7 contrari e un astenuto. Roberto Farinacci, il ras di Cremona noto ai più per la sua inscalfibile intransigenza, aveva invece abbandonato l’aula.

 

Recatosi dal re, dopo un colloquio di circa venti minuti Mussolini venne arrestato. Il suo potere sul Paese, dominio incontrastato durato oltre vent’anni, vedeva così scendere il sipario. Ad assumersi il gravoso compito, era stato un suo fedelissimo, quel Dino Grandi protagonista dello squadrismo bolognese, più volte insignito di cariche di governo, dal Ministero degli Esteri e quello della Giustizia.

 

Il ruolo di Mussolini veniva pertanto assegnato al maresciallo Pietro Badoglio, che comunicava al Paese la volontà di proseguire il conflitto a fianco dell’alleato tedesco. Dal canto suo, Hitler aveva già compreso quanto l’Italia fosse disponibile a combattere contro gli Alleati e predisposto di conseguenza i piani di occupazione della parte centro-orientale (piano Alarico) e della fetta di Balcani occupata dal Regio esercito (piano Konstantin). Nell’incontro tra i due dittatori, avvenuto a Feltre il 19 luglio, Mussolini era parso scoraggiato, silenzioso ed impotente. La catastrofe militare italiana si stava compiendo, la sua stella spegnendo.

 

Ma era stato il suo dominio, sul movimento fascista e sull’Italia, sempre incontrastato? Il più grande equivoco sul passato fascista del nostro Paese - spesso alla base delle spicciole interpretazioni volte a scagionare il fascismo e la sua guida con il pretesto di qualche grossolano errore, determinante nello sporcare una reputazione sostanzialmente positiva (le leggi razziali, l’alleanza con i tedeschi, l’entrata in guerra) – è di confondere il fascismo con Mussolini. L’equivalenza fascismo = mussolinismo rischia infatti non solo di distorcere la comprensione del totalitarismo italiano ma anche di appiattire una vicenda, quella del controllo del movimento da parte del suo “duce”, necessaria per delineare l’ascesa al potere.

 

Capo del fascismo, fondatore del movimento e guida del regime prima e della sua propaggine repubblicana poi, Mussolini non fu sempre considerato dai fascisti come il “duce”. Il suo ruolo predominante, anzi, diverrà tale grazie alle sue doti carismatiche e alle capacità politiche solamente a partire dal novembre del 1921, quando fu in grado, di fronte alle spinte centrifughe dei ras, di mantenere l’unità trasformando il movimento in partito. Nondimeno, il riconoscimento della sua autorità non avverrà in forma lineare: dal delitto Matteotti alla costruzione del regime, il ruolo di “duce” trovò non poche opposizioni tra i sostenitori del fascismo, assumendo caratteri codificati solamente negli anni ’30 (Emilio Gentile).

 

Furono l’autorevolezza riconosciutagli dai vari capi locali, il carisma ed infine la sistemazione giuridica del regime totalitario, dunque, a segnare il percorso a tappe che portò Benito Mussolini ad essere – secondo quanto fissato nella formula del catechismo fascista – “il Duce, creatore del Fascismo, rinnovatore della società civile, il Capo del popolo italiano, il fondatore dell’Impero” (Gentile). In una primissima fase, infatti, moltissimi fascisti riconoscevano come “vero duce”, invece che il “maestro di Predappio”, il "vate" Gabriele D’Annunzio.

 

Oggetto di culto durante il regime, “Cesare” dell’Italia nuova e del suo impero, Mussolini fu quindi al centro di un vero e proprio mito, costruito anche grazie alle nuove eccezionali opportunità garantite dai potenti mezzi di comunicazione di massa e dalla propaganda. Un mito di cui, dalla metà degli anni ’30, finì per essere esso stesso prigioniero. Scrive lo storico Gentile in Fascismo. Storia e interpretazione: “Mussolini non si sentiva e non si presentava più come l’interprete degli italiani ma come il loro correttore, che doveva plasmarli secondo i modelli della sua intuizione della Storia, trasformandoli individualmente e collettivamente in meri esecutori dei suoi progetti di ‘grandezza’”.

 

“Quando, negli anni della seconda guerra mondiale, la politica di Mussolini cominciò ad accumulare sconfitte, il ‘duce’ accusò gli italiani di non essere un popolo degno del suo Capo. Egli ripeteva che gli italiani erano un materiale scadente per realizzare i suoi ‘grandi disegni’: «E’ la materia che mi manca. Anche Michelangelo aveva bisogno del marmo per fare le sue statue. Se avesse avuto soltanto dell’argilla, sarebbe stato soltanto un ceramista». Così parlava pochi giorni dopo aver deciso e proclamato l’intervento dell’Italia in guerra”. Prigioniero del suo mito, il “duce”, isolato, vedeva crollare di fronte a sé il castello di carta dell’Italia imperiale e fascista.

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