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Il lento spegnimento del conflitto: dalle rese dei conti contro fascisti e collaborazionisti ai processi contro i partigiani

Mentre Trento e il Trentino festeggiavano la Liberazione dall'occupazione nazista, nel resto dell'Italia liberata continuava un processo di rese dei conti e di assicurazione alla giustizia dei fascisti e dei collaborazionisti. La lunga liberazione si sarebbe estesa negli anni, segnata da un riflusso che avrebbe portato ad un'ampia amnistia e addirittura, con l'inizio della Guerra Fredda, alla criminalizzazione dei partigiani. Ne abbiamo parlato con Mirco Dondi, uno storico che si è occupato molto della violenza politica

Di Davide Leveghi - 03 maggio 2020 - 11:22

TRENTO. Era il 3 maggio di 75 anni fa quando anche Trento, nel riflusso delle armate germaniche verso il morente Reich, festeggiava la sua liberazione. La ritirata fu contraddistinta da violenze, spesso inutili; l’ultimo eccidio nazista in Italia sarebbe proprio avvenuto alla confluenza di due valli trentine, tra la val di Cembra e la val di Fiemme, dove interi paesi furono messi a ferro e fuoco per rappresaglia, lasciando sul terreno 45 persone. Per il Trentino fu l’epilogo sanguinoso della guerra, in cui diverso era il clima rispetto al resto dell'Italia liberata e dove aveva infuriato la guerra civile contro i fascisti – le organizzazioni fasciste erano state estromesse al momento dell’istituzione dell’Alpenvorland, il territorio annesso de facto al Reich comprendente le province di Trento, Bolzano e Belluno.

 

La fine dei combattimenti e l’abbattimento della Repubblica sociale lasciavano in eredità un mucchio di macerie, materiali e morali. Il sospiro di sollievo per la fine del conflitto si accompagnava ai pianti disperati di comunità dilaniate, alla rabbia contro i responsabili di quell’ecatombe, a un furore spesso incontrollato. Non era ancora il 1945 quando nella capitale liberata qualche mese prima, il popolo romano, nel corso del processo all’ex questore fascista Pietro Caruso (tra gli autori della lista di persone trucidate nelle Fosse Ardeatine), si avventava furente contro l’ex direttore di Regina Coeli, Donato Carretta, linciandolo. Saranno circa 10mila le uccisioni compiute a Liberazione avvenuta.

 

“I linciaggi sono una forma di violenza e furia popolare che si scagliano contro figure che simboleggiano la colpevolezza – spiega lo storico bolognese Mirco Dondi – sono situazioni che sfuggono di mano. Il quadro è facilmente infiammabile nell’Italia appena liberata. Si vuole mettere in sicurezza il Paese da un possibile ritorno del fascismo, si vogliono assicurare alla giustizia i colpevoli, è un quadro, quello del post-Liberazione, fatto di macerie materiali e morali. Le guerre di Mussolini hanno lasciato ampie distruzioni, la guerra civile è stata aspra, ha lacerato il tessuto sociale, lasciando lutti e risentimenti nei civili come nelle formazioni militari”.

 

Il terrore creato dall’occupante nazista e dal suo collaboratore fascista repubblicano ha aperto ferite profonde. È come un grosso incendio, le cui braci, una volta spento, continuano ad ardere. “L’arma delle delazioni – continua – hanno un effetto nefasto, che si concludeva con la morte o la deportazione delle persone segnalate. Per questo la rabbia si indirizza contro chi nell’ombra aveva compiuto delle delazioni. Le Corti d’Assise cominciano immediatamente i processi per collaborazionismo, in cui tra i reati più diffusi c’è proprio quello di delazione. Al tempo stesso agiscono, nel caso migliore, meccanismi di isolamento sociale, quando la situazione non finisce fuori controllo. È nella natura della guerra civile, la quale è un conflitto a lento spegnimento, un’onda che lentamente esaurisce il suo effetto”.

 

Il 25 aprile non è il termine: la minaccia fascista è ancora sentita, si temono i colpi di coda. Cominciano 7-10 giorni di anomia sociale, di disordine e casualità delle uccisioni. L’opportunità e gli episodi determinano la letalità. Anche i civili si muovono autonomamente o aizzando i partigiani. Questa prima fase lascia spazio all’inerzia. Le azioni partigiane continuano, ma in maniera più mirata. È l’estate del ’45 quando si avviano le Corti straordinarie d’Assise, a garanzia che giustizia sta per essere fatta. Le reazioni della popolazione sono isteriche, c’è fortissima pressione popolare. Si teme che i colpevoli possano essere assolti o sfuggire”.

 

Dal settembre 1945 comincia invece la terza fase, più ristretta ancora, dove luoghi come le campagne emiliano-romagnole, teatro del primo squadrismo, divengono lo scenario di ritorsioni di classe. È una violenza che punta a colpire il nemico di classe e che ha una lunga matrice alle spalle. Sono tre fase cronologiche diverse”. Fasi che Dondi, nel suo lavoro La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano (1999), distingue in violenza insurrezionale, inerziale e residuale o di classe.

 

A tentare di inquadrare questa violenza si cerca di trasformare i partigiani in forze dell’ordine dello Stato. La polizia viene riorganizzata, accogliendo in parte chi ha combattuto nella lotta armata al nazifascismo. La ricerca dei fascisti ne esce accentuata, si vuole evitare il rischio del riflusso del fascismo. L’epurazione nascerà con le più rosee aspettative, ma è un processo destinato in breve a spegnersi, se non, in alcuni casi, a ritorcersi contro gli stessi partigiani. Nelle immediatezze del dopoguerra la situazione, però, è ancora tutta dalla loro parte. E la popolazione civile cerca di ottenere, a modo suo, della giustizia, ricorrendo spesso a punizioni pregne di simbolismo – come dimostrato anche dalle vendette post mortem di Piazzale Loreto inflitte a Mussolini.

 

E’ un clima esasperato e diffuso, in cui si ripetono pene simboliche che puntano all’abbassamento del prestigio all’umiliazione. Ad esempio a Marzabotto si impone ai fascisti di sgomberare le macerie, mentre nel vicentino a un medico che collaborò coi fascisti vennero fatte pulire delle latrine. Il clima è di grande pesantezza, la ricomposizione sociale è faticosa. Anche le donne sono colpite. Ad alcune accusate di essere spie o di aver avuto rapporti coi nazisti o i fascisti si impone l’umiliazione di sfilare dopo averle rapate. Chi è più scatenato sono i civili, come emerge dai documenti di questura e dalle memoria partigiane”.

 

L’elemento che li porta ad agire così – spiega Dondi – non è il semplice camaleontismo: la popolazione ha vissuto in uno stato di minaccia diretta, con i bombardamenti che hanno avuto, come sapevano bene gli Alleati, un fortissimo effetto psicologico capace di creare un trauma che li porta a rompere con il fascismo. C’è un reale cambiamento nel gradimento verso il fascismo, che cambia ancora di più con Salò, dove il fantasma del regime non è innocuo ma vendicativo, più letale di prima. La storia del fascismo dopo il luglio ’43 è di resistenza forzata e forzosa, in cui i fascisti per esistere aumentano il livello di violenza, repressiva ancor prima che militare. Questa, che si esprime nelle carceri e nelle stanza di tortura, instilla odio nella popolazione. Le donne stuprate sono centinaia, le torture una discesa agli inferi”.

 

Le scene di giubilo per la caduta del regime portarono così alla distruzione simbolica del regime, dopo le sofferenze della guerra. Il fascismo repubblicano acuisce poi il distaccamento dal fascismo. All’abbattimento la dittatura, però, risulta più difficoltoso far seguire l’eliminazione di una cultura ventennale inoculata nel popolo, indottrinato e disabituato alla democraziaLiberazione e libertà, come già detto, non sono la stessa cosa. E accanto alle lente trasformazioni delle mentalità, di certo i cambiamenti nel contesto internazionale finirono per rovesciare il grande repulisti immaginato dall’Italia resistenziale, generando un riflusso che avrebbe, secondo una celebre definizione di Ferruccio Parri, fatto riemergere il “ventre obeso” d’Italia.

 

“I procedimenti giudiziari per i reati di collaborazionismo come l’epurazione amministrativa contro i funzionari del regime hanno un esito misurabile in due tempi – prosegue – in primis con le sentenze di primo grado in cui le pene sono pesanti, poi con gli altri gradi di giudizio, in cui le pene si alleggeriscono e si allenta la pressione popolare. La monarchia d’altronde aveva promesso che avrebbe dato vita ad un’amnistia, qualora avesse vinto il referendum. Di fatto la Repubblica avrebbe fatto lo stesso”.

 

Tra democristiani e social-comunisti infatti si discute sul numero di amnistiati, ma alla fine a vincere è la linea di Degasperi, una linea larga che comprende un ampio numero di amnistiati. Ad esempio si stabilirà una distinzione tra le torture, dividendole in ‘semplici’, ‘efferate’ e ‘particolarmente efferate’. Questo porta in Cassazione ad esiti assurdi, in cui si discute sul voltaggio delle torture con l’elettricità. La stampa in questo momento cerca di infondere nella popolazione un sentimento di giustizia e di fiducia nelle amministrazioni. Quella di marca Cln dà notizia degli arresti e invita la popolazione a dare la propria testimonianza. Ma se la violenza in questa fase è ritenuta fisiologica, con il ’46 e il cambio del clima internazionale comincia la criminalizzazione dei partigiani”.

 

Nel giugno 1946, con l’amnistia Togliatti, tutte le azioni dei partigiani fino al 31 luglio 1945 vengono ritenute amnistiabili, ma il clima si è profondamente trasformato. La linea democristiana ha trionfato, a sinistra l’amnistia solleva un vespaio. “La Dc sta cercando in quel momento di togliere appoggio al Pci, ma nel Paese, specie dopo l’attentato a Togliatti del luglio 1948, si diffonderà una logica maccartista nella repressione dei partigiani. Ciò avrà conseguenze importanti sulla memoria, mettendoci una pietra sopra. I fascisti, da parte loro, elaboreranno invece una memoria propria di vittime, aggressiva, senza alcuna assunzione di responsabilità. Sono memorie da idealisti, memorie manipolate che torneranno alla base dell’operazione politica volta a legittimarle compiuta da Giampaolo Pansa” (su questo giornale ne avevamo parlato in occasione della morte del noto giornalista, a gennaio).

 

“La linea della guerra civile ne segnerà il portato – conclude – con i fascisti nella parte meridionale del Paese che non si staccheranno dalla memoria del regime, mentre al centro-nord si svilupperà una nostalgia della Rsi, del fascismo aggressivo e nazificato. Queste due anime si scontreranno nel Movimento sociale, ma la prima, essendo numericamente più forte avrà la meglio nel partito”.

 

Questo articolo è il decimo di una serie: Attra-Verso la Liberazione vuole essere una lente tramite cui vedere la lotta resistenziale senza le distorsioni del falso mito della memoria condivisa e senza l’agiografia che per decenni ha contraddistinto la narrazione della conquista della libertà contro la tirannide nazi-fascista. La grandezza della scelta partigiana, infatti, emerge dallo stesso racconto del contesto, nella sua durezza, nella sua complessità e problematicità, nel suo immenso e meraviglioso valore.

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