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Storia di una bizzarra metamorfosi: il Monumento alla Vittoria di Bolzano dal fascismo dalla Repubblica

Il Monumento alla Vittoria di Bolzano incarna sommamente la persistenza del nazionalismo italiano in Alto Adige a prescindere dalla simbologia di cui è pregno e dal regime impostosi a Roma. Riconosciuto anche dagli Alleati nel maggio 1945 come il simbolo dell’italianità, continuò a essere fino agli anni ’90 il teatro della manifestazioni nazionali nella provincia altoatesina, fino a quando nel 2010 non è stato al centro di un importante lavoro di storicizzazione e depotenziamento. Ne abbiamo parlato con uno dei protagonisti, lo storico Andrea Di Michele

Di Davide Leveghi - 27 aprile 2020 - 09:23

TRENTO. “Dopo che era stato danneggiato durante la guerra, nel 1949, il Monumento alla Vittoria, restaurato, viene nuovamente benedetto alla presenza del vescovo di Trento. È una cerimonia in cui si parla di sacri confini e di sacrificio per la patria. L’Italia repubblicana, al di là della connotazione chiaramente fascista dell’arco, con le colonne a fascio littorio, lo rimette al centro evidenziando il significato stesso della presenza degli italiani e dello Stato in Alto Adige”.

 

Ci sono linee che attraversano la storia, altre che si interrompono, magari per riprendere corso più avanti. Continuità e rottura marcano il passare degli anni, rappresentando una chiave con cui interpretare il passato. Puntando la lente sul grande arco della Vittoria costruito a Bolzano e dedicato al trionfo italiano nella Grande Guerra, possiamo comprendere quanto il nazionalismo abbia accompagnato la presenza della comunità italiana in Alto Adige, a prescindere dal regime impostosi a Roma, e come non sia possibile esaurire il discorso su questo monumento etichettandolo come una semplice vestigia del fascismo.

 

Costruito tra il 1926 e il 1928, anno dell’inaugurazione, sul cantiere di un mausoleo ai Kaiserjäger, il Monumento alla Vittoria, affidato all’architetto Marcello Piacentini, doveva essere in principio un altare dedicato a Cesare Battisti. Tuttavia, il rifiuto netto della moglie di questo Ernesta Bittanti, la quale non voleva che la memoria battistiana fosse strumentalizzata dal fascismo, portò Mussolini a ricalibrare il tiro, decidendosi per l’erezione di un arco di trionfo che non solo celebrasse la vittoria nella Grande Guerra ma che marcasse pure la presenza dell’italianità in quel territorio annesso per mero calcolo strategico e al di là delle aspirazioni irredentistiche.

 

Lungo il tratto di arco alpino che aveva ospitato il fronte italo-austriaco, sorsero dunque una serie di sacrari, più o meno imponenti, che raccoglievano i resti dei soldati (non solo italiani) e che si ponevano, secondo la logica nazionalista del fascismo, a “sentinella” dei sacri confini conquistati con il sacrificio di 600mila morti. Impropriamente anche l’arco di Piacentini veniva caricato di questo significato di monumento ai caduti.

 

“E’ il problema di tutti i monumenti alla Grande Guerra in Italia – spiega lo storico Andrea Di Michele – essa fu una guerra pre-fascista ma è stato il fascismo a creare questi luoghi e a sacralizzarne la memoria. La guerra fu trasformata in una grande epopea fascista, lasciando poi in eredità la sua memoria, con tutti i problemi che ne derivarono, all’Italia repubblicana, che non a caso dove festeggiava a Bolzano il 4 novembre, fino agli anni ‘90? Di fronte al Monumento alla Vittoria”.

 

Lo Stato si riconosceva in questo monumento e con esso la stessa comunità italiana giunta in larga parte in Alto Adige durante e per iniziativa del regime. “Il gruppo italiano arriva in larghissima parte con il fascismo e quindi si ritrova nell’idea di rappresentare la nazione italiana in un territorio dove non ha profondità storica. Questa presenza è segnata in primis dal nazionalismo, prima che dal fascismo. Per forza di cose, poi, le politiche demografiche del regime creano un legame tra il fascismo e la popolazione italiana, che gli deve la sua stessa presenza qui, la possibilità di un lavoro e una carriera. La prima ondata di italiani arriva per lavorare nelle istituzioni dello Stato. C’è una sovrarappresentazione di funzionari, impiegati, di militari”.

 

“La seconda ondata, negli anni ’30, rappresentò una grossa impresa del regime che offriva agli operai giunti per lavorare nella zona industriale una casa, un’occasione spesso di avanzamento sociale da condizioni misere nelle proprie terre d’origine, gettando le basi per un certo sentimento di riconoscenza verso il regime, messo in crisi poi dalla guerra. La comunità italiana, di conseguenza, doveva molto al regime”.

 

Conclusa la guerra, però, la Repubblica nata dalla Resistenza fondò le proprie basi sull’antifascismo. Nelle semi-rurali costruite dal regime, nelle fabbriche bolzanine, si costituiva il nucleo italiano della Resistenza anti-fascista e anti-nazista in Alto Adige. La guerra rompeva la fiducia della popolazione nel regime, senza mettere però in discussione l’elemento nazionale, su cui i due risicati movimenti resistenziali di lingua italiana e tedesca ben presto diversero. Scacciato l’invasore tedesco dall’Alto Adige “provincia del Reich”, gli Alleati, quando ancora le sorti di questa terra devono essere discusse in sede di trattative di pace, scelsero proprio il Monumento fascista eretto dall’architetto del regime Marcello Piacentini per la cerimonia di consegna dei poteri al Cln locale.

 

E’ indicativo – continua Di Michele – che il 31 maggio 1945 anche gli americani vedano in quel monumento un simbolo dell’italianità. Questo è visto come un simbolo della presenza italiana e della vittoria nella Grande Guerra, e proprio qui sta il problema, perché seppure sia un tempio fascista esso è al tempo stesso, fin dall’inizio, un monumento alla vittoria, all’annessione, un monumento nazionalista. Si mischiano così dei diversi piani: i simboli fascisti si mettono da parte o si fa finta di non vederli, rimane invece l’elemento della rivendicazione territoriale”.

 

“Nei carteggi dell’Ufficio Zone di Confine (creato nel 1946 presso la presidenza del Consiglio per “difendere l’italianità” delle regioni di frontiera) se ne evidenzia il significato di presenza italiana e dello Stato in Alto Adige, affermando come non si possa lasciarlo mezzo distrutto e si debba porre mano per restaurarlo. Si crea così il corto circuito tra Stato, vittoria, italianità e fascismo. Quella dell’Alto Adige è una società che si articola su linee etniche e per questo sfumano le appartenenze politiche. Nella cerimonia di re-inaugurazione del 1949 Tito Zaniboni, presidente dell’Unuci, l’Unione nazionale degli ufficiali in congedo, socialista interventista ai tempi della Grande Guerra e protagonista di un fallito attentato nel 1925 a Mussolini, per cui passò 20 anni in carcere, teneva un discorso pregno di retorica del sacrificio, affermando che la centralità del Monumento non stava nei fasci littori ma nella sacralità del confine del Brennero, nel significato di presenza della Nazione”.

 

Trasversalmente alle forze politiche italiane, il Monumento “perde” così il suo carattere fascista subendo una ri-significazione che ne fa emergere il solo tratto nazionale. E ciò avviene perfino in forze come il Pci e il Psi che, più in generale con la memoria della Grande Guerra, cercano di recuperare il tema nazionale per non presentarsi alla cittadinanza come forze anti-nazionali. Di fronte al sacrificio e all’omaggio ai caduti della Prima guerra mondiale non c’è distinzione politica che tenga.

 

L’Alto Adige, sotto questo profilo, non è un’anomalia. Lo è semmai per il contesto in cui si trovano gli italiani, nello scontro con un gruppo maggioritario che richiede l’autonomia e l’autodeterminazione. Quando c’è lo scontro nazionale c’è il rischio che anche chi non è nazionalista lo possa diventare e ci si butti dentro. Le cose si sono pertanto radicalizzate – conclude Di Michele - ma proprio sulla base di questa difficoltà si è giunti a fare un lavoro che non si è fatto altrove di storicizzazione, musealizzazione e depotenziamento”.

 

Nel 2010, infatti, il Monumento alla Vittoria diviene il centro di un progetto di storicizzazione che ne contestualizza il ruolo nella città, trasformandosi in percorso museale su Bolzano, l’Alto Adige e i totalitarismi che ne segnano la vicenda storica. È questa una rottura inaspettata e decisiva, che sveste il Monumento alla Vittoria del suo carattere nazionalista convertendolo in un “luogo delle memorie” del territorio.

 

Questo articolo è l’ottavo di una serie: Attra-Verso la Liberazione vuole essere una lente tramite cui vedere la lotta resistenziale senza le distorsioni del falso mito della memoria condivisa e senza l’agiografia che per decenni ha contraddistinto la narrazione della conquista della libertà contro la tirannide nazi-fascista. La grandezza della scelta partigiana, infatti, emerge dallo stesso racconto del contesto, nella sua durezza, nella sua complessità e problematicità, nel suo immenso e meraviglioso valore.

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