Un omicidio fascista: 99 anni fa un maestro sudtirolese veniva ucciso dalla violenza squadrista
La vita è spesso una questione di prospettive, e la storia, sotto questo aspetto, non è che la dimostrazione. Un episodio avvenuto 99 anni fa in Alto Adige, in cui un maestro sudtirolese fu ucciso durante una sfilata da una revolverata di una fascista, può essere al tempo stesso, a seconda di chi lo considera, un indizio dell’odio nazionalista italiano contro la minoranza tedesca o una manifestazione del carattere violento e antidemocratico del fascismo (di confine)
TRENTO. E’ insito in tutti i popoli “strappati dalla storia alla propria madrepatria” quel sentimento di considerarsi gli esclusivi depositari di un’ingiustizia inaccettabile. Molto spesso ciò impedisce, quando si guarda al passato (anche con un certo distacco temporale ed emotivo) di inserire le proprie sventure in un contesto più ampio, considerando dinamiche storiche che permetterebbero d’altra parte di comprenderlo più a fondo.
L’omicidio del maestro Franz Innerhofer in quel 24 aprile del 1921, passato alla storia per i sudtirolesi come la “Domenica di sangue” – nome che ritorna in diverse occasioni, in diversi contesti, su tutti il 30 gennaio 1972, quando le truppe inglesi spararono sulla folla di manifestanti a Derry, in Irlanda del Nord – ne è la dimostrazione: inquadrato già nelle immediate circostanze successive al fatto come una manifestazione dell’odio nazionalista italiano, l’episodio segnava dopo l’ingiusta annessione del confine del Brennero l’avvio delle angherie compiute dall’Italia nei confronti degli abitanti tedeschi della Venezia Tridentina (così si chiamava il Trentino-Alto Adige in questa fase).
Eppure i dati che potrebbero permettere di riconsiderare da un’altra prospettiva questo episodio, a 99 anni di distanza, sono diversi. Innanzitutto il funzionamento del fascismo di confine: in Valle d’Aosta, nella Venezia Giulia e in Istria, perfino nelle isole del Dodecaneso passate al Regno d’Italia dopo la guerra italo-turca del 1911-1912, così come in Alto Adige, vennero adottate misure snazionalizzatrici nei confronti delle minoranze.
Riguardo alla repressione giudiziaria basti considerare che dinnanzi al Tribunale speciale creato nel 1926 per giudicare i reati contro lo Stato e il regime, passarono 28 sudtirolesi, 17 dei quali vennero condannati complessivamente a 35 anni e due mesi di carcere, a fronte di 777 imputati originari della Venezia Giulia, condannati in 692 casi a un totale di 6193 anni, 8 mesi e 12 giorni di carcere. Fino al 1932, il Tribunale aveva inflitto complessivamente 1124 anni di carcere a 106 fra cittadini di lingua slovena e croata, condannandone 5 a morte. 200 circa furono i sudtirolesi inviati al confino, durante il quale morirono in tre, come altrettanti furono i confinati di lingua slava.
In secondo luogo il carattere del fascismo in sé. Le indagini storiografiche stimano in circa 3000 le vittime dello squadrismo fascista, mentre per tornare alla sola repressione giudiziaria basti prendere in considerazione che complessivamente il Tribunale speciale, dalla sua costituzione alla caduta del regime nel 1943, processò 5619 imputati condannandone 4596, per un totale di 27735 anni di prigione, 42 condanne a morte (di cui 31 eseguite) e tre ergastoli. E questo tralasciando gli anni della guerra civile e tutte le vittime causate nei territori occupati o aggrediti.
Specificando che tali dati non riflettono che una frammentaria visione della violenza fascista – nel suo volto “legalitario” – possono comunque risultare utili per allargare la cornice interpretativa, uscendo da una prospettiva strabica, concentrata solo sul Sudtirolo e le sorti nefaste della sua popolazione maggioritaria, quella di lingua tedesca appunto. Ciò che accadeva il 24 aprile 1921 a Bolzano aveva già preso avvio con più virulenza a Trieste, dove i fascisti locali avevano dato fuoco alla sede delle organizzazioni slovene, il Narodni Dom, nel luglio 1920. Qualche mese più tardi, a novembre, un atto di forza dei fascisti bolognesi poneva fine nel sangue alla legislatura socialista appena insediata nel capoluogo emiliano, coronando, come affermato dallo storico Renzo De Felice, il passaggio del fascismo da “movimento rivoluzionario” a “movimento d’ordine”.
Non si tratta affatto di ridurre la portata dell’episodio quanto di riportarlo al suo contesto storico, sottraendolo a un’interpretazione mitizzata da un opposto nazionalismo, di matrice tirolese. Il 24 aprile 1921 a Bolzano si festeggiava l’inaugurazione dopo tanti anni della Fiera, con numerosi commercianti scesi dalle valli o arrivati da fuori regione. A indispettire i fascisti e i nazionalisti v’era però un altro evento che si doveva tenere solo simbolicamente: in segno di solidarietà con il referendum che si stava svolgendo in Tirolo del Nord (senza tra l’altro l’approvazione di Vienna) sull’annessione alla Germania della neo costituita Repubblica austriaca (impedita dal trattato di Versailles), infatti, nel centro atesino erano state preparate schede e urne.
A distanza di nemmeno un mese dalle elezioni generali, i fascisti preparavano così il battesimo delle violenze nazionali contro la minoranza tedesca. Vestiti in abiti tradizionali, i sudtirolesi stavano sfilando con alla testa le bande di paese quando intervennero a disturbare e a provocare qualche centinaio di camicie nere provenienti per lo più dalla province lombarde e venete. Il clima era teso, le provocazioni ai simboli della tirolesità del territorio si erano intensificati in vista delle elezioni, protagonista il piccolo fascio locale, costituito nel febbraio a poca distanza da quello trentino. Un altro corteo era atteso in città, quello dei fascisti appunto, capeggiato da Achille Starace, animatore del movimento nella Venezia Tridentina.
A scortare le camicie nere (circa 400), accorse in treno a rimpinguare il risicato nucleo regionale, il commissario civile Luigi Credaro aveva schierato pertanto 170 carabinieri, 1000 soldati, 150 finanzieri e una trentina di guardie cittadine. Un contingente corposo che non impediva, comunque, l’aggressione al corteo folcloristico e agli spettatori accorsi a vedere. Dopo iniziali tafferugli, dai fascisti partivano le granate e le revolverate che crearono il panico in città. Chi non veniva ferito dalle schegge veniva raggiunto dalle manganellate degli squadristi.
Presente a Bolzano con la banda del paese, il maestro Franz Innerhofer, originario di Marlengo, nel Burgraviato, veniva raggiunto da un proiettile (sparato probabilmente dallo squadrista friulano Lino Mariotti, trasferitosi con la famiglia a Bolzano per commerciare frutta) mentre tentava di condurre i suoi scolari al riparo in un portone del palazzo Stillendorf (dove i fatti sono ora ricordati da una lapide omaggiata ogni 25 aprile, oltre che nella visita congiunta dei presidenti della Repubblica italiana Mattarella e austriaca Van der Bellen nel novembre passato). Altri 50 rimanevano sul terreno feriti, più o meno gravemente. Intervenuti con colpevole ritardo, i militari a quel punto scortavano i fascisti alla stazione senza compiere alcun arresto – i fascisti bolzanini Attilio Crupi e Vittorio Moggio sarebbero stati incarcerati per qualche giorno, venendo rilasciati nonostante le prove della premeditazione delle violenze.
Nello scalpore generale, con proteste sollevate anche dal mondo tedesco, il presidente del Consiglio Giolitti e il commissario della Venezia Tridentina Credaro avviavano un’indagine conclusasi con un nulla di fatto. La comunità sudtirolese, compresi gli italiani di lingua, si strinse attorno alla famiglia di Innerhofer – temendo rappresaglie i fascisti locali si erano allontanati da Bolzano. I lavoratori italiani in città proponevano senza successo lo sciopero generale, mentre in una Bolzano listata a lutto, lo storico borgomastro Perathoner teneva un discorso infuocato, denunciando la connivenza delle forze dell’ordine con i fascisti. A sancire il compattamento nazionale, il corteo funebre per il maestro faceva tappa al monumento meranese ad Andreas Hofer.
Mussolini, all’apertura del Parlamento nel 1921, si assunse la responsabilità di quelle violenze. “Lo bomba collocata – affermava nel suo primo discorso al Parlamento – fissava i confini oltre i quali il fascismo non intende permettere ai tedeschi di avanzare”. Le violenze di Bolzano non erano che la dimostrazione che il fascismo poteva assumere a seconda dei contesti le caratteristiche più confacenti, esprimendosi come violenza politica, violenza sociale o in questo caso, semplicemente violenza nazionale.
Quello del 24 aprile 1921, dunque, segnava sì un battesimo della violenza squadrista per il popolo sudtirolese, ma non fu che uno dei tanti omicidi fascisti, non dissimile da quelli compiuti in Italia o all’estero contro chi, gli antifascisti, si batteva contro la montante barbarie. Ha ragione lo storico Stefan Lechner quando dice: “A distanza di 90 anni ricordarlo è importante perché il suo destino chiarisce cosa significhi in realtà il fascismo: terrore, violenza e morte”.
Questo articolo è il sesto di una serie: Attra-Verso la Liberazione vuole essere una lente tramite cui vedere la lotta resistenziale senza le distorsioni del falso mito della memoria condivisa e senza l’agiografia che per decenni ha contraddistinto la narrazione della conquista della libertà contro la tirannide nazi-fascista. La grandezza della scelta partigiana, infatti, emerge dallo stesso racconto del contesto, nella sua durezza, nella sua complessità e problematicità, nel suo immenso e meraviglioso valore.