Il fascismo in Trentino, dall’avvento alle memorie nostalgiche dell’Impero: storia di una nazionalizzazione riuscita e delle sue rimozioni
Il mito dell’estraneità del fascismo in Trentino è stato ampiamente confutato dalla storiografia. Monumenti, scuola, esercito, cultura, trasformarono un liminare territorio dell’Impero in una periferica provincia italiana, in cui i giovani vennero formati alla nuova identità nazionale. Eppure accanto al lavoro degli storici riaffiorano memorie che si fanno soggetto e oggetto di rimozioni del passato, veicolando precisi progetti politici. Ne abbiamo parlato con Quinto Antonelli, responsabile dell’Archivio della scrittura popolare del Museo storico di Trento
TRENTO. “In maniera diversa dall’Alto Adige, anche in Trentino, una volta conquistato, la popolazione dovette essere nazionalizzata e italianizzata. Per questo fu messo in campo un consistente programma culturale affidato innanzitutto a chi aveva combattuto affinché questo territorio divenisse finalmente italiano”.
Il Trentino della fine del 1918 è al tempo stesso un insieme di macerie e un “cantiere” straordinario: la distruzione di una guerra combattuta nelle valli e sulle montagne, che ha lasciato i suoi profondi segni sul territorio, è l’ambientazione in cui una popolazione stremata e costretta in buona parte al profugato dovrà essere ri-formata nella sua nuova appartenenza nazionale. La scuola, i monumenti, l’esercito, saranno tra gli strumenti più importanti nel delinearne i nuovi contorni identitari.
Sarà l’avvento del fascismo, la cui prepotenza e arroganza avrà modo di manifestarsi a inizio ottobre 1922 con la Marcia su Bolzano e Trento, a dare a questo processo un corso più efficace, dopo le caute aperture all’autonomia dei governi liberali. A guidarne le sorti, marcando così la specificità di un territorio secolarmente legato al mondo tirolese, sarà proprio quella formazione, la Legione Trentina, espressione nelle sue diverse declinazioni dell’irredentismo nostrano.
“La fascistizzazione in Trentino vide come soggetto operante non il Partito o le squadracce, quanto gli ex volontari dell’esercito italiano, che ancora prima dell’avvento del fascismo si posero la questione di come rendere italiano in Trentino – spiega Quinto Antonelli, responsabile dell’Archivio della scrittura popolare della Fondazione Museo storico del Trentino – un percorso che comincia con l’epurazione dai luoghi pubblici e dalla scuola degli ex funzionari asburgici, e poi con l’impressione di segni d’italianità che ‘riportassero’ il Trentino dentro la storia italiana”.
“Ciò avviene con una serie di iniziative, dai giardini della memoria alle lapidi, dai grandi monumenti ai musei. È un’azione capillare, città per città, paese per paese, valle per valle, per imprimere un marchio, lavorando soprattutto sulla memoria della guerra appena conclusa, sostituendo una memoria collettiva italiana a quella da rimuovere del fronte galiziano e della prigionia in Russia”.
E’ soprattutto il fascismo ad accollarsi questo compito, monopolizzando la memoria della Grande Guerra nel culto del sacrificio per la patria e della morte per i sacri confini. Su tutto l’arco del fronte italo-austriaco sorgeranno i grandi monumenti e sacrari eretti dal regime. I piccoli cimiteri di montagna vengono smantellati, a beneficio di ossari che raccolgono assieme i resti delle opposte truppe in santuari a sentinella della nuova frontiera, conquistata “a costo di 600mila vite”. Le lapidi in tedesco vengono cancellate, la memoria dei morti asburgici confinata nei cimiteri. L’epopea “dell’ultima guerra risorgimentale” trova nei cori alpini i cantori di una nuova comunità nata nelle trincee, mutuando un genere popolare come il canto di montagna in uno strumento unificante alla patria.
“La vicenda del coro della Sat si inserisce in questo quadro di una nuova memoria collettiva – racconta Antonelli – i canti della Grande Guerra proposti sono un elemento vivificatore, enfatizzatore dei raduni dei reduci, con cui si esalta lo spirito collettivo delle adunate. Si insiste sulla memoria della guerra come momento fondante dell’identità trentina per dare ai trentini un’identità italiana”.
“Ma è soprattutto la scuola, quella elementare in particolare, visto che ci passano tutti, a essere durante il fascismo il luogo di formazione per eccellenza. Tanto che il regime insisterà molto sulla fascistizzazione del corpo docente e della scuola. Nei registri dei maestri, che nei paesi svolgevano spesso anche ruoli nel partito, affiancando alla funzione formativa anche quella organizzativa, ci si può rendere conto del livello di orgogliosa fascistizzazione della classe magistrale. I trentini, in quanto redenti, devono essere migliori degli altri italiani, per questo i maestri si sentono investiti dall’idea di essere avamposto culturale, insegnando di giorno ai bambini e di sera agli adulti”.
“A differenza degli insegnanti dei licei, dove c’è maggiore autonomia e soprattutto molto meno studenti, i maestri elementari nelle città come nei piccoli paesi svolgono il lavoro di formazione nazionalista e fascista. Gestiscono le ricorrenze del calendario fascista, i raduni, le organizzazioni giovanili, le celebrazioni rituali, tutta la vita collettiva passa attraverso le scuole”.
L’idea nazionale italiana non è però portato del fascismo, che si trova semmai a intensificarne i tratti. La classe dirigente che assume il potere nel dopoguerra si fa interprete del cambio di regime, introducendo già quei semi di costruzione dell’italianità del trentino. “Quando nel ’26 il fascismo diventa regime – prosegue Antonelli – è già tutto fatto. L’operosità della nuova classe dirigente, pre-fascista, proto-fascista, nazionalista, ha già dato i suoi frutti e da questo punto di vista il fascismo non aggiunge”.
“I diari e le lettere dei soldati durante le guerre fasciste e la Seconda guerra mondiale dimostrano l’efficacia della formazione fascista su giovani che sono passati dalle scuole e dagli oratori, che hanno manifestato festanti nelle piazze. L’Archivio di scrittura popolare anche da questo punto di vista è importantissimo perché riflette la cultura e le parole d’ordine, è un’enciclopedia culturale in cui si formano, viaggiano e si concludono i destini personali”.
Il carattere esterno e l’estraneità dei trentini al fascismo, con cui per lungo tempo si è raccontato il passato in Trentino, sono stati pertanto ampiamente confutati dal paziente lavoro storiografico, pur tenendo conto di una certa peculiarità della vicenda trentina. Storia e memoria ancora una volta si palesano come espressioni umane contrastanti, l’una nel rigore della ricostruzione l’altra nella selezione arbitraria e strumentale dei ricordi: l’affiorare a partire dagli anni ’80 di una rivendicazione identitaria nostalgica del Tirolo unito e del Kaiser introduce proprio un elemento di auto-assolvimento verso la convinta appartenenza al fascismo dei trentini.
“Nel secondo dopoguerra le memorie che monopolizzano il discorso pubblico non solo quelle della Prima guerra quanto della Seconda – spiega Antonelli – i reduci la impongono per l’immediatezza della loro esperienza, perché c’è un altro mondo e un’urgenza di alimentare altri ricordi. L’emergere di toni nostalgici che non avevano avuto modo di affiorare e di essere accolti avviene semmai negli anni ’80, dopo che la storiografia ha già peraltro recuperato la memoria dei Kaiserjäger e le storie di vita della Grande Guerra”.
“Le compagnie di Schützen in Trentino nascono negli anni ’80, sulla scia dell’esperienza sudtirolese. È una narrazione che si basa su aneddoti, ricordi secondari, frutto di una generazione di nipoti dei Kaiserjäger. È un’espressione di folklore che esula però dalla ricostruzione storica, basandosi su emozioni, sul sentito dire, sul desiderio di un’identità che diventa anche malessere, spia di un non stare bene in Italia, di un senso di marginalizzazione del Trentino”.
La memoria rimossa – anche quella del consenso ricevuto dal fascismo regime in Trentino – riaffiora dai fiumi carsici della storia, e ciò accade ovunque, non solo nel nostro territorio. Sollecitata dai racconti orali dei vissuti personali, nutre identità che si sentono minoritarie e che rivendicano spazio e riconoscimento. Ma non solo, veicolano progetti politici.
“Questo tipo di memoria nostalgica è un’operazione politica nella misura in cui cerca di fondare le ragioni dell’autonomia – conclude Antonelli – basti pensare a come le minoranze linguistiche ed etniche come i mocheni siano state blandite e coccolate dopo decenni in cui sono state ignorate o disprezzate. Dal secondo Statuto, esse si sono trasformate in un elemento a cui aggrapparsi per dare un senso all’istituto autonomistico”.
Questo articolo è il quarto di una serie: Attra-Verso la Liberazione vuole essere una lente tramite cui vedere la lotta resistenziale senza le distorsioni del falso mito della memoria condivisa e senza l’agiografia che per decenni ha contraddistinto la narrazione della conquista della libertà contro la tirannide nazi-fascista. La grandezza della scelta partigiana, infatti, emerge dallo stesso racconto del contesto, nella sua durezza, nella sua complessità e problematicità, nel suo immenso e meraviglioso valore.