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I fascisti prendono Bolzano e Trento, sono le prove generali della Marcia su Roma

E' il 2 ottobre 1922 e le squadracce fasciste invadono le aule del municipio di Bolzano apponendo nella sala consiliare il busto di Vittorio Emanuele III re d’Italia. Per il Trentino s’apre un’epoca di insofferenza verso la mancata autonomia, l’Alto Adige finisce per trasformarsi in un ''laboratorio d’Italia''

Di Davide Leveghi (nato a Trento nel 1993, diplomato al liceo classico Prati e laureato in storia all'università di Bologna. Specializzato in storia contemporanea) - 16 giugno 2019 - 17:14

TRENTO. Ripercorrere la storia dei nostri corregionali ci permette di fare i conti con il nostro passato (di trentini) così come di entrare in alcuni decisivi snodi della vicenda novecentesca del nostro Paese. La frontiera è lente privilegiata per comprendere la traiettoria intrapresa dall’Italia nelsecolo breve”, luogo dove albe e tramonti delle fasi storiche si palesano con anticipo. “Alto Adige, un laboratorio d’Italia” vuole raccontare per capitoli quattro momenti nodali della storia altoatesina per comprendere l’influenza delle politiche attuate da Roma sul resto dell'Italia.

 

Capitolo 1: all’alba del fascismo

 

Il 2 ottobre 1922 le squadracce fasciste, al comando di alcuni dei più bellicosi ed importanti ras, invasero le aule del municipio di Bolzano apponendo nella sala consiliare il busto di Vittorio Emanuele III re d’Italia. Le forze dell’ordine, come poi evidenziato dalle indagini dell’ispettore ministeriale Di Tarsia, avevano assecondato quell’azione volta ad esautorare il borgomastro Julius Perathoner, giunto ormai al decimo mandato e protagonista della strenua opposizione all’annessione del Sudtirolo al Regno d’Italia.

 

Cominciata il giorno prima, l’azione fascista doveva dare la decisiva spallata all’amministrazione liberale riguardo alla politica di confine, ambigua, fragile, indecisa. L’onorevole Luigi Credaro, dall’1 agosto 1919 alla guida del Commissariato della Venezia Tridentina, era ai loro occhi troppo mite verso quei rappresentanti del gruppo tedesco che cocciutamente manifestavano la loro protesta nei confronti dell’ingiusto smembramento della madrepatria tirolese.

 

A Salorno, sul confine amministrativo e linguistico tra Tirolo tedesco e Trentino, già da tempo le autorità italiane avevano stabilito posti di blocco per evitare che il montante fascismo si manifestasse con azioni violente contro una popolazione sordamente ostile quanto ormai rassegnata alla nuova frontiera.

 

A poco servirono, d’altro canto, quei traballanti check-in di fronte al connubio fascista e nazionalista, tra le arringhe di Tolomei e gli sparuti ma rumorosi groppuscoli dei Fasci sorti nella regione per impulso esterno o attivismo degli italiani, “avanguardia della stirpe”, giunti a rimpinguare i ranghi della nuova amministrazione regia.

 

L’azione su Bolzano, al momento dell’occupazione del municipio, era già cominciata il giorno precedente, dopo l’invio di un ultimatum al borgomastro bolzanino, che oltre a chiedere la sua destituzione - misura straordinaria decisa con decreto regio - avanzava richieste svariate, dall’istituzione di una scuola italiana al calmiere dei prezzi, dal bilinguismo dei cartelli stradali e delle insegne all’assegnazione di una chiesa alla piccola comunità italiana presente in città.

 

La destituzione di Perathoner non accontentò un fascismo bramoso di metter fine alla politica liberale sui confini. Presentata dalla pubblicistica fascista come la prova generale della Marcia su Roma, che di lì a venti giorni avrebbe sconvolto le sorti del Paese, l’azione su Bolzano costituì semmai il marchio definitivo del fallimento di un mondo liberale ormai in balia della violenza squadrista. Un marchio impresso a suon di manganellate, attraverso manipoli riottosi e già imbaldanziti, legittimati nell’operato illegale da forze di sicurezza conniventi o colpevolmente inerti.

 

L’occupazione del palazzo municipale bolzanino fu parte di un’azione ben più vasta e simbolica. L’edificio dell’Elisabethschule, la scuola cittadina, venne invaso da un gruppo di squadristi al comando del ras triestino Francesco Giunta. A coordinare le operazioni, portate a compimento da fascisti giunti in Sudtirolo da Lombardia, Veneto e Trentino in un numero superiore a 2.000 effettivi, spiccavano le eminenti figure di Starace, animatore del fascismo locale, De Stefani, Farinacci. La scuola venne ribattezzata immediatamente Regina Elena, a testimonianza di un fascismo che dalle iniziali posizioni repubblicane passava a strumentali ammiccamenti alla Corona.

 

Una volta costretto il Consiglio comunale bolzanino a dimettersi, conclusa l’azione su Bolzano, gli squadristi indirizzarono le proprie attenzioni sul capoluogo della Venezia Tridentina. L’obiettivo di esautorare Credaro, e di conseguenza di frustrare ogni aspirazione autonomistica presente in regione, obbligava i fascisti a svolgere un’analoga azione nel palazzo della Regione di Trento. Lo schieramento messo in campo dalle autorità italiane fu decisamente più consistente. Cominciava così un fronteggiamento tra le bande fasciste ed un esercito tutt’altro che motivato a scacciare i rivoltosi.

 

Il braccio di ferro davanti al palazzo della Regione non sarebbe durato molto. Da Roma si comunicava la volontà di avallare le richieste fasciste deponendo Credaro dal ruolo di commissario civile, inviando appena possibile un prefetto che sancisse la vittoria del principio centralistico. A nulla valsero le proteste dei politici locali contro un’azione politica violenta a cui di certo non erano adusi nel territorio regionale. La capitolazione liberale a Bolzano e Trento non era che un assaggio di ciò a cui l’intero Paese avrebbe assistito con la Marcia su Roma del 28 ottobre di quell’anno.

 

Mentre per il Trentino s’apriva un’epoca di mai celata insofferenza verso la mancata autonomia ed i supposti favoritismi verso i vicini a nord, l’Alto Adige finì per trasformarsi in un laboratorio d’Italia, un terreno su cui lo Stato italiano avrebbe misurato la sua capacità di rapportarsi con una minoranza, virando nettamente verso un atteggiamento repressivo e snazionalizzatore.

 

Dal 1923 al 1939 si sarebbero succedute ad ondate misure ed iniziative tese a costruire la facciata d’italianità e a colpire la compattezza del gruppo “allogeno”, culminate nell’accordo orale di Berlino del 23 giugno 1939 con cui gli apparati politici e diplomatici della Germania nazionalsocialista e dell’Italia fascista avrebbero deciso il trasferimento volontario dei sudtirolesi, accordo passato alla storia con il nome di Opzioni.

 

L’impreparazione e l’inadeguatezza della politica liberale nei confronti dell’amministrazione delle minoranze lasciava così spazio all’aggressiva italianizzazione e alla parallela snazionalizzazione sostenuta dai circoli più oltranzisti. Mentre nei territori orientali la violenza fascista si scagliava contro uno slavo nemico etnico ed ideologico, in Alto Adige l’offensiva nazionalista prese corpo in virtù dell’adesione mussoliniana alle tesi tolomeiane di un territorio recentemente germanizzato e per questo oggetto di una necessaria opera di restituzione all’italianità. S’apriva così il capitolo dell’italianizzazione dell’Alto Adige.

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