"Eravamo al Nord e andavamo sempre più a nord, fra le montagne". Il lager di Bolzano-Gries nelle testimonianze dei sopravvissuti
Attivo dall'estate del 1944 alla fine della Seconda guerra mondiale, il lager di Gries fu campo di concentramento e di transito per migliaia di persone, molte delle quali vi furono internate in attesa del trasferimento nel lager nazisti d’Oltralpe
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
«Scendemmo a Gries, alla periferia di Bolzano. Fummo allineati e chiamati per nome. Sotto la pioggia dirotta non vedevamo altro che la sagoma scura di un piccolo fabbricato e degli alberi svettanti all’ingresso. […] Ci fecero attendere oltre mezz’ora sotto l’acqua; poi le donne furono condotte da una parte, noi da un’altra, verso l’interno del campo. Fummo inghiottiti da un camerone vastissimo e squallido, nel quale i “castelli” a tre piani prendevano quasi tutto il posto».
A scrivere è Piero Caleffi in Si fa presto a dire fame. Caleffi, classe 1901, è tra i dirigenti milanesi del Partito d’Azione. Dopo l’8 settembre 1943 fa parte “Missione Law” che, in contatto con gli inglesi, trasmette i movimenti delle truppe tedesche in Italia. Catturato dai fascisti nell’agosto 1944, è consegnato alle SS e spedito nel lager di Bolzano. Sua la descrizione delle prime impressioni all’arrivo al campo, simile a quelle di tanti altri, uomini e donne, che vi furono rinchiusi fra l’estate del 1944 e la fine della Seconda guerra mondiale.
Come altre strutture di prigionia in Italia, anche il lager di Gries nasce come campo di internamento fascista per prigionieri di guerra alleati. Ubicato alla periferia nord di Bolzano, dopo l’armistizio passa sotto il diretto controllo dei tedeschi, che trasformano la struttura esistente in campo di concentramento e di transito, luogo cioè in cui ammassare i prigionieri in attesa traferirli verso i lager oltre le Alpi. Caleffi giunge a Gries nell’ottobre 1944. Vi resterà fino all’8 gennaio 1945, quando, assieme ad altri cinquecento prigionieri, sarà caricato sul convoglio n. 115 con destinazione Mauthausen.
Al campo, gestito dalle SS, giungono con ogni tipo di mezzo prigionieri da tutto il nord Italia. Ebrei, antifascisti, partigiani e ogni altra categoria di nemici del Reich, uomini, donne e bambini. All’arrivo a tutti è assegnato un numero, che viene cucito sulla divisa: è il primo passo di quel processo di disumanizzazione cui i nazisti sottopongono i prigionieri. Poi l’assegnazione ai blocchi, secondo la categoria. Fra le sezioni del campo particolarmente temuta è quella adibita a prigione: cinquanta celle che diventano luogo di tortura e morte per decine e decine di prigionieri.
La vita all’interno del campo è scandita da una rigida disciplina: la sveglia è alle 5:00, cui segue la pulizia personale, la distribuzione del caffè e il riassetto del giaciglio notturno; alle 6:00 l’appello sulla piazza centrale del campo; dalle 7:00 alle 16:30 il lavoro, all’interno o all’esterno, con due pause per il rancio giornaliero, a mezzogiorno e alle 17:00; alle 18:00 l’appello serale, poi il rientro nei blocchi e, alle 21:00, il silenzio. La razione giornaliera di pane prevede circa 250 grammi a prigioniero. È un pane di segale, pesante, pieno d’acqua, che non nutre.
Gli ordini sono scanditi con violenza, secondo la prassi dei lager nazisti, e chi si attarda a eseguirli viene percosso senza pietà. Scrive ancora Caleffi: «Un ordine brusco viene gridato in tedesco, poi in italiano: “Cappelli giù!”. Vediamo tutti gli altri scattare nella esecuzione di quell’ordine scemo, ma noi non siamo ancora pratici e ci riesce goffo. “Cappelli su!”. E ci fanno ripetere quel gesto quindici, venti volte, finché il comandante del campo, il maresciallo Haage, non è soddisfatto».
Fra i prigionieri di Gries vi fu anche, per un breve periodo, Pietro Chiodi, docente di Storia e filosofia al Liceo classico di Alba, a cui Beppe Fenoglio, suo allievo, si sarebbe ispirato per il personaggio del patriota Monti nel suo capolavoro Il partigiano Johnny. Così Chiodi descrive, nel suo libro Banditi, un prigioniero che gli resta particolarmente impresso: «Alto, magrissimo, con un paio di pantaloni tutti rotti che gli arrivavano alle ginocchia. Si aggira per il campo appoggiandosi ad un lunghissimo bastone. Sembra uno squilibrato. […] Parla con una distinzione ed un tratto eccezionali. Ho chiesto chi fosse. Era il più noto avvocato di Trieste. Nei primi mesi di detenzione i tedeschi gli facevano fare dieci giri al giorno intorno al campo con un quintale sulle spalle. Quando cadeva lo facevano rialzare a nerbate. L’hanno ridotto così».
Il 21 dicembre 1944 al campo giunge un convoglio di automezzi che trasporta una settantina di partigiani e antifascisti veneti. Fra loro vi sono due delle più importanti figure della Resistenza vicentina: Torquato Fraccon, arrestato insieme al figlio Franco, e Giacomo Prandina. Condividono la loro sorte il farmacista Carlo Crico, Luigi Massignan, all’epoca studente di medicina a Padova, e Michele Peroni, studente di legge, suo amico d’infanzia e, come Massignan, partigiano del batt. “Valdagno”. Sono stati tutti arrestati nelle settimane precedenti, nel corso delle grandi retate dell’autunno 1944.
Massignan, nel suo libro Ricordi di Mauthausen, così descrive i giorni di Natale 1944: «La vigilia di Natale venne scoperto un tentativo di fuga nel blocco E. Un gruppo di prigionieri aveva scavato una galleria che partiva da sotto i castelli […] e doveva sbucare fuori dalle mura del campo. […] Una perquisizione scoprì lo scavo e le SS volevano i nomi di coloro che avevano partecipato all’impresa. Nessuno parlò e allora tutti i prigionieri del blocco vennero fatti uscire nel cortile, all’alba del 25 dicembre, sulla neve e tenuti sull’attenti».
Caleffi riporta il medesimo episodio, seppur con alcune differenze. Massignan invece, profondamente religioso, è colpito da quanto avviene verso mezzogiorno del 25 dicembre, quando, con sorpresa di tutti, un prete, accompagnato da due chierichetti, entra nel campo e celebra la Messa. Scrive ancora Massignan: «La Messa fu rapida e alla fine i due ragazzini intonarono con le loro voci infantili il canto natalizio Stille Nacht. […] C’era un silenzio assoluto e il canto giungeva al cuore di tutti con una violenza emotiva incredibile. I prigionieri certamente non erano tutti credenti […] ma in quel momento la commozione invase tutti e quasi tutti avevano le lacrime agli occhi».
È però un sollievo parziale ed effimero in un luogo in cui regnano la violenza, il terrore e la morte. L’8 gennaio il trasporto n. 115 è pronto a partire dalla stazione ferroviaria. Scrive Caleffi: «Attraversammo Bolzano nel pomeriggio. L’aria era gelida, sotto un cielo grigiastro che sembrava coperto da uno spessore di ghiaccio. Ci caricarono su vagoni merci coperti da un leggerissimo strato di paglia. […] Nel nostro carro eravamo sessantatré. La porta scorrevole fu richiusa con fracasso e piombata. Il treno si mosse lentamente». E Massignan: «Eravamo al Nord e andavamo sempre più a nord, fra le montagne, facendo soste nei boschi per sottrarre il convoglio all’aviazione alleata».
Il viaggio ha termine l’11 gennaio, con l’arrivo a Mauthausen. Dei circa 500 prigionieri partiti col trasporto 115 a sopravvivere all’inferno di Mauthausen saranno una sessantina. Fra quanti che troveranno la morte vi saranno quasi tutti i vicentini; scamperanno Massignan e Peroni.
Oggi del campo di Gries non esiste che qualche traccia. Nel luogo in cui si stima furono rinchiuse oltre novemila persone, un terzo delle quali come tappa intermedia prima della deportazione definitiva, negli anni Sessanta è stato realizzato un quartiere popolare. A partire dal 1985, alcuni monumenti installati in loco hanno contribuito a far riscoprire la memoria del luogo e delle vittime. Dal 2019 i loro nomi sono proiettati su una parete di vetro nero. Si tratta, ovviamente, di una lista incompleta dacché anche qui come altrove le SS, prima di ritirarsi, ebbero cura di distruggere interamente i documenti relativi al campo.