"La contaminazione può essere causata anche dalle bandierine tibetane appese alle croci di vetta". Microplastiche: un problema che va dal Terminillo al monte Everest
Le microplastiche rappresentano un problema capillare, che coinvolge anche i territori montani. Quali sono le cause della loro presenza in aree remote o scarsamente frequentate? Ne abbiamo parlato con Ines Millesimi che sta analizzando questa dinamica prendendo come caso-studio il monte Terminillo
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Il candore espresso da un ghiacciaio o da un pendio innevato può celare allo sguardo una realtà appena percettibile, ma che si fa riflesso di un’importante problematica sociale: l’invasione capillare di plastiche e microplastiche (micro particelle disperse nell’ambiente che non sono visibili a occhio nudo) non solo nei poli più antropizzati, ma anche in quelle aree dove la pressione umana è indubbiamente meno intensa.
E così, sotto il manto abbacinante, scopriamo un mondo meno immacolato di quanto appare. Come riporta il libro Plastica addio, a cura di Chiara Spadaro e Elisa Nicoli, uno studio compiuto nel 2018 compiuto sul ghiacciaio dei Forni (gruppo Ortles-Cevedale) ha rilevato una concentrazione di microplastiche in una quantità simile a quella osservata nei sedimenti marini e costieri d’Europa: circa 75 particelle per chilo di sedimento.
“Sarebbero da 131 a 162 milioni – scrive Spadaro – le particelle di plastica trovate dai ricercatori nella lingua d’ablazione del ghiacciaio dei Forni, uno dei più importanti apparati glaciali italiani, tra i 2600 e i 3600 metri sul livello del mare: la microplastica è arrivata fin quassù con l’attività umana, rilasciata dall’abbigliamento e dall’attrezzatura degli alpinisti, o trasportata dal vento”.
Queste piccole particelle – come riportato da un altro studio pubblicato su Nature Geoscience nel 2019 – possono infatti percorrere fino a 95 chilometri di distanza attraverso l’atmosfera.
Questo problema ovviamente non riguarda solo i ghiacciai alpini e l’alta montagna: come dimostra il caso-studio del monte Terminillo, dove lo scorso inverno si è svolto un campionamento su un’area ritenuta “ottimale” in termini di qualità dell’aria, le microplastiche si insidiano anche tra le vette degli Appennini.
La ricerca è stata condotta da Ines Millesimi, dottoranda in Ecologia e gestione sostenibile delle risorse ambientali presso il Dipartimento di Scienze ecologiche e biologiche dell’Università della Tuscia, che ha spiegato a L’AltraMontagna:
“L’idea era quella di verificare sui punti sommitali delle montagne, dove in genere si trovano croci di vetta oppure segni trigonometrici o rifugi, la presenza di microplastiche intrappolate nella neve. Sono partita dalle diverse vette del monte Terminillo che si trova vicino a casa mia in provincia di Rieti, dove ho fatto sei aree di campionamento sulla neve. Insieme ai chimici e ai biologi dell’Enea di Roma, abbiamo processato e ipotizzato le possibili sorgenti dei 28 campioni”.
“Questo lavoro – prosegue Millesimi – si inserisce in un discorso più ampio che ho potuto realizzare all’interno del mio dottorato: nell’ambito delle lezioni di green chemistry ho voluto approfondire con una breve ricerca di letteratura scientifica la pratica dei teli geotessili per rallentare la fusione e il ritiro dei ghiacciai. Infatti anche questi teli bianchi, così rassicuranti perché sembrano protettivi, sono parte del problema e oggetto di revisione critica, sebbene riescano a mitigare in una buona percentuale la fusione causata dall’innalzamento delle temperature in quota. Non è infatti per ora una soluzione sostenibile su larga scala e per di più rilasciano microplastiche, che si sommano all’inquinamento prodotto dai mezzi pesanti per posizionarli. Le microplastiche sono l’inquinante emergente ubiquo, dannoso per l’ambiente, per il biota e per la specie umana. Tutti sanno che queste microparticelle finiscono poi nella catena alimentare”.
“Nel mio caso specifico – continua – ho analizzato soprattutto l’impatto antropico di alpinisti e di trekker sulle cime e ho verificato quanto effettivamente incida la presenza di fibre tessili rilasciate da indumenti tecnici, ma anche dall’attrezzatura. Pensiamo ad esempio alle corde, alle giacche, agli indumenti di pile, ma anche alle suole degli scarponi composti di gomme sintetiche”. “Queste particelle o frammenti vengono rilasciate nell’ambiente indirettamente, per attrito meccanico oppure a causa dell’usura, ma non solo”, aggiunge Millesimi. “Sono stati fatti studi recenti anche in montagna in diverse parti del Pianeta (in generale la letteratura scientifica sulle microplastiche in questi ultimi anni è particolarmente abbondante) e sono state trovate microplastiche (fibre) addirittura sul ‘balcone’ della vetta del monte Everest, a 8.440 m di quota. Quindi le possibili sorgenti della loro diffusione sono connesse al passaggio degli alpinisti (deposizione umida), ma anche al trasporto del vento. Nel caso di luoghi vicini a realtà urbane o a montagne più antropizzate un’altra fonte di microplastiche sono gli pneumatici e i freni delle auto”.
I fiocchi di neve, proprio per la loro conformazione, sono la struttura naturale ideale per catturare queste microplastiche che fluttuano nell’atmosfera. “Bisogna però fare grande attenzione – puntualizza la dottoranda – a distinguere le microplastiche dalle polveri sahariane, dai pollini o da altro particolato. Io ho fatto campionamenti volendo confrontare i dati sia su neve fresca che su neve calpestata sui Duemila del massiccio del Terminillo, lontano da impiani sciistici, ed è emerso un dato molto significativo, che forse non era facile da prevedere: la massima concentrazione, una concentrazione preoccupante, l’abbiamo individuata proprio sulla vetta del Terminillo a 2.216 m s.l.m. Le analisi chimiche condotte dall’Enea hanno restituito solo in questo punto 780 frammenti contro una media di massimo 100/180 frammenti sugli altri punti di campionamento di altre vette e punti dell’area interessata allo studio”.
Un’altra sorgente di microplastiche, continua Millesimi, possono anche essere “tutti quegli elementi simbolico-identitari che noi appendiamo volontariamente alle croci di vetta o ai segni trigonometrici: da un’analisi incrociata abbiamo potuto verificare l’incidenza, benché minima, causata dalle bandierine tibetane che si sfilacciano al vento e che sono costituite per la gran parte da fibre in poliestere”.
“Bisognerebbe organizzare all’interno del Club Alpino italiano – conclude la dottoranda – una campagna di sensibilizzazione, per esempio la proposta di una giornata nazionale per rimuovere bandierine, orpelli e adesivi dalle croci di vetta che deturpano e sono fonti di inquinanti volontari sulle cime. A chi e a che servono? Sarebbe utile fare più pressione nel comparto dell’outdoor per chiedere di minimizzare l’impatto di polimeri e un maggiore investimento nella ricerca delle attrezzature in linea con standard più rigorosi per la mitigazione della dispersione delle microplastiche in ambiente montano, poiché il riciclo non è la soluzione (si ricicla solo due volte); sarebbe utile estendere la ricerca di microplastiche campionando lungo le sorgenti d’acqua dolce in montagna; e, senza allarmismi, rendere i cittadini più informati e consapevoli delle eventuali ripercussioni sulla salute umana. Sarebbe auspicabile adottare, in modo più ragionevole e con senso di autoresponsabilità, delle misure di riduzione e contenimento di queste emissioni che sono destinate ad aumentare con l’aumento del turismo alpinistico in montagna. L’Europa ci sta pensando con proposte concrete in merito alla prevenzione della dispersione di pellet di plastica e alla riduzione dell’inquinamento da microplastiche, ma tutti dobbiamo fare la nostra parte. Un passo avanti è stato fatto con il tappo attaccato alla bottiglietta di plastica”.