Un'enorme valanga, poi il vuoto. Era il giorno di Natale quando l'alpinista Anatolij Bukreev alzò lo sguardo per l’ultima volta
Stava tentando una nuova via invernale sull'Annapurna insieme a Simone Moro, sopravvissuto per miracolo a quel 25 dicembre 1997. Finiva così un periodo di salite serrate e tormenti, alimentati dalle critiche ingiuste che gli furono mosse a causa del suo coinvolgimento nella tragedia dell'Everest del 1996
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Era il giorno di Natale del 1997 quando Anatolij Bukreev alzò lo sguardo per l’ultima volta. Il suo compagno di salita - un giovane Simone Moro - aveva urlato il suo nome con tutto il fiato che la quota himalayana gli permetteva di avere in corpo. Lo stesso Moro ha ricordato che in quell’istante Bukreev osservò con calma l’enorme muro di ghiaccio e neve che stava precipitando nella sua direzione. I suoi ultimi movimenti furono lenti e calibrati. L’alpinista sovietico cercò di mettersi al riparo ma la dimensione della massa precipitata era tale da non lasciare scampo. Quel giorno Simone Moro fu l’unico a sopravvivere alla furia del ghiaccio sull’Annapurna, la decima montagna più alta della Terra (8091 metri).
Anatolij Bukreev, Dimitri Sobolev e Simone Moro stavano tentando la salita invernale della parete sud del colosso himalayano. Moro fu trascinato dalla valanga per centinaia di metri e si salvò per miracolo. Non Bukreev e Sobolev i cui corpi non furono mai trovati. Quel giorno - il 25 dicembre 1997 - l’alpinismo himalayano perdeva uno dei suoi massimi interpreti, tra i pochi che poteva davvero affermare di trovarsi a casa solo tra le cime più alte. Queste le parole che dedicò a quel mondo disumano dove ogni respiro è una sfida:
“Le grandi montagne sono un mondo a parte: neve, rocce, cielo e aria sottile. Non puoi conquistarle, puoi solo salire alla loro altezza per un breve tempo, e per fare ciò esigono molto.
La sfida non ha che fare con un nemico o un avversario, come succede nello sport, ma con le sensazioni innate di debolezza e inadeguatezza. Questa lotta mi affascina ed è per questo che sono diventato alpinista. Ogni cima è diversa, ognuna è una vita che hai vissuto. Arrivi sulla vetta avendo rinunciato a tutto ciò che credi sia necessario per vivere e sei solo con la tua anima. Un punto di vista puro che ti permette di rivalutare te stesso, i tuoi legami e i beni della vita ordinaria con una prospettiva diversa.“
La maggior parte di chi conosce Anatolij Bukreev lo deve alla tragedia che ebbe luogo sulla cima dell’Everest nel maggio del 1996. Quell’anno Anatolij fu assoldato come guida (anche se preferiva farsi chiamare allenatore o preparatore) dall’alpinista americano Scott Fischer, un pioniere delle spedizioni commerciali sugli 8000. Per quell’anno Fischer stava organizzando una spedizione all’Everest e volle Bukreev con sé perché, aldilà delle sue indiscusse abilità alpinistiche, sapeva anche che, grazie alla sua proverbiale resistenza, Anatolij sarebbe stata la persona su cui contare se qualcosa fosse andato storto.
La vicenda è nota: durante il tentativo finale alla vetta 8 persone morirono a causa di una tempesta e della lentezza di alcuni clienti. Tra i morti ci fu lo stesso Scott Fischer. Anatolij fu l'unico che cercò di aiutare chi era rimasto in difficoltà. Con quello che venne definito tra i più incredibili soccorsi ad altissima quota salvò dalla bufera tre alpinisti, ma ciò non bastò a provocare pesanti polemiche che amareggiarono molto il kazako.
Lo scrittore alpinista americano Jon Krakauer scrisse un libro dedicato a quei giorni (Aria Sottile). Lo fece da protagonista, essendo tra i clienti della spedizione che condivise il tentativo alla vetta insieme a quella di Fischer-Bukreev. Nel libro Krakauer non risparmiò feroci critiche a Bukreev, accusandolo di essere tra i principali responsabili della tragedia. Dichiarò che Anatolij non aveva prestato sufficiente aiuto a chi era in difficoltà e che mancò di professionalità scegliendo di non usare le bombole di ossigeno e adottando altri atteggiamenti eccentrici. Molti testimoni criticarono le dichiarazioni di Krakauer, riconoscendo a Bukreev di essere stato l’unico che si impegnò realmente per aiutare gli alpinisti in difficoltà. Facendo fondo alle sue energie salvò tre persone e per questo gli furono assegnati dei riconoscimenti.
Sulla questione dell’ossigeno Anatolij fu sempre molto chiaro: preferiva non usarlo. Lo fece solo sul Kanchemnjunga perché obbligato (faceva parte di una spedizione nazionale), e durante una spedizione commerciale nel 1997. Riteneva che senza ossigeno fosse più facile percepire le reazioni del corpo alle alte quote e dosare correttamente le energie. Temeva invece che facendo uso di questa risorsa, se per qualsiasi motivo questa si fosse esaurita prima del previsto, il fisico avrebbe reagito con un crollo improvviso con conseguenze fatali.
Le vicende dell’Everest del 1996 ebbero un lungo strascico per Anatolij. Non conoscendo bene l’inglese, temeva di non riuscire a spiegare le sue scelte e di non poter smentire le accuse di Krakauer che intanto si erano trasformate in un libro campione di vendite. Il successo di quest'ultimo consumò gli spazi disponibili al confronto, la storia di successo era quella di Krakauer, non la sua.
Inoltre si sentiva in qualche modo responsabile per la morte dell’amico Scott Fischer e delle altre persone scomparse, sebbene fosse consapevole di aver fatto ciò che era in suo potere. Gli amici americani lo convinsero infine a mettere nero su bianco le sue impressioni, evidenziando le imprecisioni riportate da Krakauer e presentando una cronaca quanto più imparziale degli eventi. Fu così che nacque il libro di Anatolij dedicato al racconto della tragedia. Lo scrisse con l’aiuto di Gary Weston de Walt e da pochi mesi ne è uscita la nuova edizione per i tipi di Solferino (The Climb, Everest 1996 – Cronaca di un salvataggio impossibile).
Il libro non è la mera cronaca degli eventi tragici e concitati che avvennero sull’Everest in quei giorni di maggio. Bukreev racconta in profondità il suo rapporto con le spedizioni commerciali e con le conseguenze che ebbe su di lui e sul suo alpinismo il crollo dell’Unione Sovietica. Dopo il 1991 Anatolij si trovò improvvisamente senza risorse e con una nuova nazionalità, da sovietico a kazako. Il dissolvimento del sistema che gli aveva garantito i mezzi per praticare l’alpinismo di vertice e i valori che da sempre facevano sfondo alle sue giornate fu un duro colpo. Nelle pagine che scrisse appare chiaro il suo senso di inadeguatezza tra la sua cultura e il sistema di stampo occidentale che pian piano colonizzava anche le massime quote. Al netto di ciò, il suo desiderio di salire lassù fu sempre fortissimo. Fece di tutto per superare le difficoltà in cui si trovò imbrigliato e vivere quei mondi freddi e lontani, ma anche paurosamente affascinanti.
Partecipare alle spedizioni commerciali fu il mezzo per finanziare i suoi progetti alpinistici e trascorrere il suo tempo professionale dove desiderava. Come guida il suo obiettivo non era però portare in cima i clienti, ma di fornire loro i mezzi e le capacità per farlo in autonomia, cercando di limitare i rischi. Per questo non amava essere chiamato guida, ma preferiva la definizione di allenatore o consulente. In questa differenza è forse rappresentata al meglio la sua lontananza dalla visione consumistica delle alte quote, già imperante all’epoca.
Nel breve intervallo di tempo che passò tra la tragedia dell’Everest e la sua morte - circa un anno e mezzo -, Anatolij portò a termine 7 salite su cime di 8000 metri, di cui quattro in soli 80 giorni. Risultato straordinario, soprattutto considerando che a parte in un caso non utilizzò l’ossigeno.
C’è chi sostiene che l’attività frenetica di quell’anno e mezzo sia stata una reazione alla vicenda dell’Everest. L’amico Galen Rowell racconta che con quelle salite serrate Anatolij abbia voluto testare sé stesso, nel tentativo di lasciare alle spalle le critiche ingiuste e l’insicurezza che ne era scaturita. Non lo sapremo mai davvero. Quello che però credo di aver compreso leggendo quanto Bukreev ci ha lasciato è che salire in alto era la cosa che gli riusciva meglio, quella che riempiva di sostanza la sua esistenza.