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A cent’anni dalla marcia su Roma: perché non riusciamo a metterci il fascismo alle spalle?

Cent’anni fa il Partito nazionale fascista avviava le manovre, militari e diplomatiche, per conquistare il potere. Dopo un secolo, molto è cambiato ma il fascismo, nella memoria e nella coscienza nazionale, continua a rappresentare un elemento difficile da riporre in una teca da museo. Ma perché?

Foto tratta dal web
Di Davide Leveghi - 28 ottobre 2022 - 09:37

TRENTO. La marcia su Roma compie cent’anni. Un secolo fa, con una combinazione di forza muscolare e gioco diplomatico (QUI l'articolo), il capo del Partito nazionale fascista Benito Mussolini otteneva dal re Vittorio Emanuele III il compito di formare un nuovo esecutivo, dando avvio, di fatto, al Ventennio di regime. L’anniversario, dunque, è molto importante, perché quella fascista non solo fu un’epoca estremamente significativa nella storia nazionale ma anche un vulnus identitario di cui siamo stati – a ottant’anni dalla sua fine, purtroppo – incapaci di liberarci.

 

Affrontati ampiamente dalla storiografia, il fascismo e il suo mito primigenio – la marcia su Roma, appunto – si muovono come fantasmi nel dibattito pubblico quotidiano come nella coscienza nazionale. Tutt’altro che parentesi, come infelicemente la definì l’intellettuale liberale Benedetto Croce, gli anni del fascismo rappresentano ancora, anche in un’Italia teoricamente fondata sul suo contrario, l’antifascismo, il “convitato di pietra” di un Paese strutturalmente attraversato da tendenze autoritarie e conservatrici.

 

Ma perché questo avviene? Perché il fascismo non si riesce a trasformare in un “pezzo da museo”? Senza ripercorrere il lungo dibattito sul tema, proviamo a capire il perché partendo da alcune semplici e incontrovertibili considerazioni: il fascismo è un passato che non passa perché non solo è mancata una totale rottura fra il regime e la democrazia (negli apparati dello Stato, nelle sue leggi, in alcuni importanti settori della società, ecc.), ma anche perché non è il fascismo una sola epoca (chiusa) della storia italiana, bensì l’insieme di idee, mentalità e pratiche che nel tempo si sono evolute e si evolvono, riproponendosi nello scenario pubblico.

 

Se nella Storia esistono rotture e continuità, fenomeni di breve e di lungo periodo, accelerazioni e rallentamenti, nel caso del fascismo in Italia non possiamo che constatare che tanti sono stati i punti di cambiamento quanto altrettanti siano stati quelli di più o meno lineare continuazione. Nella mancanza di un superamento di quanto avvenuto fra il 1919 e il 1945, dunque, ci sono ragioni di contesto storico come eredità e responsabilità eluse. Ci sono, in definitiva, nodi non sciolti che hanno a che fare con chi siamo come individui, nati e cresciuti nel contesto di questo Paese, e come comunità.

 

Atto decisivo della reazione al protagonismo delle classi lavoratrici, fenomeno assecondato da ampie fette della società italiana, la marcia su Roma fu tutt’altro – rispetto a quanto sostenuto dal fascismo e dai suoi eredi – che una rivoluzione. Sostenuto dagli apparati dello Stato, dall’esercito come dalla corte, finanziato da industriali e grandi proprietari agrari, esso rafforzò tendenze già presenti nel Paese, re-immaginando la società secondo criteri solo in parte innovativi. L’individuo, nel totalitarismo, perdeva ogni velleità a libertà e giustizia in nome della “grandezza della Nazione”.

 

Se il suo progetto di trasformare l’Italia e gli italiani si poté definire concluso (e fallito) con la guerra e la Liberazione, nondimeno le sue scorie sarebbero rimaste a lungo nella società come nella mentalità degli italiani. E qui arriviamo, con un salto di decenni, a ciò che accade attorno a noi in queste settimane; perché al di là di qualche politico con la collezione di memorabilia del duce in soggiorno, la questione si presenta come ben più seria.

 

A riguardo, due punti meriterebbero una riflessione, partendo comunque da uno stesso nodo: cosa intendiamo ora per fascismo. Lo storico Enzo Traverso, in un intervento sulla rivista Jacobin, utilizza la categoria “post-fascismo” per indicare tutti quei movimenti d’estrema destra che caratterizzano l’attuale panorama politico. Nati in un contesto ben diverso da quello dell’Europa devastata del dopoguerra, privi di un’idea del futuro come il fascismo classico, i movimenti post-fascisti s’esprimono attraverso un “onnipresente conservatorismo – la difesa dei valori e delle culture tradizionali, il mito delle «identità nazionali» minacciate, l’incubo della rispettabilità borghese minata dalle «deviazioni» di genere, il terrore dei nuovi costumi incarnati da orde di immigrati”.

 

Rivolte al passato, le nuove destre incarnano l’ideologia del “pessimismo culturale, non il fascismo classico; il fascismo classico era modernista, esse sono essenzialmente antimoderne […] quando sono all’opposizione, esprimono una rivolta regressiva contro il neoliberismo imperante; quando arrivano al potere, difendono tendenze neoconservatrici e autoritarie senza riuscire a modificare sostanzialmente la politica economica dei governi”. Sono, in conclusione, una minaccia per la democrazia non tanto perché porterebbero a un ritorno d’un fascismo che non può più ripetersi con le stesse caratteristiche, ma perché agiscono su un terreno in senso neoconservatore e autoritario dove non si presentano reali e credibili alternative.

 

Qui, dunque, arriviamo al punto due: l’incapacità della sinistra di proporre alternative valide e reali al sistema imperante. L’utilizzo da parte di certe forze politiche di categorie ormai vuote come quella di fascismo non solo non fanno più presa sulla popolazione, ma nascondono un vuoto di idee. Agitato come uno spauracchio, il fascismo, nelle sue nuove declinazioni e derivazioni, non viene realmente compreso e finisce così per vincere. Costruire un’alternativa alle derive neoconservatrici e autoritarie diviene così necessario anche per ridare significato a certe parole, calandole nel loro contesto e non svuotandole a colpi di retorica.

 

Per fare ciò, nondimeno, conoscere cosa il fascismo classico sia stato continua a rappresentare un punto ineludibile. Non solo perché la conoscenza della storia offre strumenti necessari per capire il presente, ma anche perché la sua comprensione instilla nelle persone quegli anticorpi indispensabili per la diffusione di pericolosi virus, come appunto possono essere il fascismo e le sue “varianti”. Il Dolomiti, per questo, da ormai un anno e mezzo porta avanti una rubrica domenicale chiamataCos’era il fascismo” (QUI gli articoli), nel tentativo di spiegare pratiche e origini di una forza nata ben prima del suo arrivo al potere, il 28 ottobre 1922.

 

Cent’anni di distanza sembrano tanti, ma non lo sono. Aumentare la percezione di allontanarsene, ciononostante, è possibile, anche se la realtà che viviamo pare farcela sentire più vicina. Per farlo servono allora un grande lavoro e la creazione di alternative. Non ci resta che augurarci buona fortuna

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