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“La storia italiana a una svolta decisiva”: contrattempi, violenza e tragedia nei giorni della marcia su Roma

Cosa avvenne nei giorni fatidici della marcia su Roma? Quale fu il palcoscenico della tragedia nazionale che portò al potere per i vent’anni seguenti il Partito nazionale fascista e il suo capo Benito Mussolini? Giunti alle porte del centenario, ecco la nuova puntata della rubrica “Cos’era il fascismo”

Foto tratta dal web
Di Davide Leveghi - 23 ottobre 2022 - 18:31

Fascisti! Principi! Triari! La battaglia che voi avete ingaggiata e condotta con impareggiabile spirito di sacrificio, volge ormai al suo termine vittorioso. Sua Maestà il Re ha fatto telegrafare a Mussolini invitandolo a Roma per dargli l’incarico di formare il nuovo Governo. Il Duce partirà stasera. Egli intende dare prestissimo alla Nazione un Governo degno della Nazione che consacri in faccia all’Italia e al mondo la rinnovata volontà della Patria. I resti degli avversari risalgono senza speranza le valli sospinti dalle nostre gagliarde milizie che precluderanno ogni ritorno al passato” (dal proclama del comando militare pubblicato nel pomeriggio del 28 ottobre 1922 su Il Popolo d’Italia)

 

TRENTO. Nella notte tra il 27 e il 28 ottobre 1922 il piano fascista di conquista del potere fu avviato come da programma (QUI l’articolo). Dopo anni di altisonanti proclami e di violenze crescenti, l’assedio finale alle istituzioni liberali del Regno d’Italia veniva lanciato in una duplice azione, militare e diplomatica, volta a ottenere dal re l’affidamento del governo. Così avvenne, effettivamente, dopo giorni convulsi.

 

Così li descrisse, l’antifascista sardo Emilio Lussu, nel suo resoconto personale intitolato appunto La marcia su Roma: “La mobilitazione fascista avviene come può. Nella gran parte delle regioni non avviene affatto. Contro uno Stato che si difende non è facile prendere l’offensiva. In tutta Italia si dice: «Questa marcia finisce in galera». Ma il governo è dimissionario. Il comando generale delle forze fasciste si fissa a Perugia. Lo compongono Bianchi, De Bono, De Vecchi e Balbo. Il duca d’Aosta, che ha promesso tutto il suo appoggio all’impresa, si porta clandestinamente nei dintorni di Perugia. Colonne fasciste sono ammassate a Civitavecchia, a Mentana, a Tivoli”.

 

Tutte dovrebbero puntare su Roma. Ma regna il più grande disordine. Contrattempi, ritardi, equivoci spezzano le varie colonne e ritardano gli ammassamenti. La grande parte è senz’armi: molti sono armati di fucili da caccia. I fucili militari sono senza cartucce. Solo alcune mitragliatrici delle squadre toscane sono in buono stato. I viveri incominciano ad essere insufficienti dal primo giorno”.

 

Non è quella di Lussu l’unica testimonianza che descrive la disorganizzazione che regnò nella marcia, poi divenuta mito fondante del fascismo regime. Definita nei suoi ultimi aspetti nella partecipatissima adunata di Napoli (QUI l’articolo), l’azione fascista si concluse sì nella capitale ma non fu lì che ebbe il suo principale teatro. Tutta Italia, infatti, divenne palcoscenico della tragedia che avrebbe trascinato il Paese nel ventennio più buio della sua storia.

 

Mentre a Perugia i quadrumviri del fascismo (QUI un approfondimento) attendevano di cominciare l’accerchiamento di Roma, già nella mattina del 27 ottobre una prima città di provincia subiva la prima di tante occupazioni. Attorno alle 11.30, Pisa assistette all’arrivo copioso di camion carichi di fascisti, che interruppero ogni comunicazione con Firenze e Genova e occuparono gli edifici pubblici.

 

Una dopo l’altra, le principali città del Centro-Nord subirono la stessa sorte e in alcuni casi, come a Cremona, la reazione delle forze dello Stato provocò delle vittime. Poche comunque furono le realtà in cui gli assalti alle prefetture si risolsero in scontri con forze di pubblica sicurezza o esercito, a testimonianza di una diffusa passività – se non di aperta connivenza – verso il fascismo (QUI e QUI gli articoli). Come scrive la storica Giulia Albanese nel suo saggio La marcia su Roma: “La mancanza di atti di violenza nella maggior parte dei luoghi in cui l’occupazione fascista era cominciata costituì il primo e principale successo del piano fascista”.

 

Eletta quartier generale della “rivoluzione fascista” grazie all’amicizia del prefetto con i dirigenti fascisti, alla vicinanza a Roma e alla nutrita presenza di camicie nere, Perugia, in quelle ore, cominciava intanto a riempirsi di fascisti. Da qui, i quadrumviri avrebbero coordinato il concentramento delle forze nei quattro punti previsti, avviato nella notte fra il 27 e il 28. L’obiettivo, appunto, era la capitale, passata nel mentre sotto il controllo del comandante di divisione Emanuele Pugliese.

 

Il 28 ottobre, mentre tutto questo stava prendendo forma, Il Popolo d’Italia annunciava già la storicità dell’evento: “La storia italiana ad una svolta decisiva! – titolava l’edizione del mattino – la mobilitazione dei fascisti è già avvenuta in Toscana”. L’assalto fascista al potere, intanto, provocava nel governo una reazione decisa, con il voto all’unanimità, seguito da un immediato telegramma a tutti i prefetti del Paese, per la proclamazione dello stato d’assedio.

 

Come noto, tale situazione mutò allorché, qualche ora dopo, un altro telegramma giunse nelle prefetture di tutta Italia. Lo stato d’assedio, per volontà del re, veniva infatti revocato, dimostrando la volontà politica di non liquidare il movimento fascista ma di assecondarlo. Numerosi giornali antifascisti o critici verso i metodi fascisti, subirono a quel punto il blocco delle pubblicazioni o la devastazione delle tipografie.

 

Mentre i fascisti proseguivano nel corso del 29 ottobre ad affluire nei punti di concentramento, a Roma continuavano a vigere le misure di sicurezza previste dal comando di divisione. Ponti bloccati, perimetro delle mura sbarrato dai cavalli di frisia, stazioni ferroviarie occupate, restituivano della città un’immagine d’assedio. Ciononostante, alla revoca dello stato d’assedio decisa dal re, fascisti e nazionalisti presenti in città reagirono con manifestazioni di giubilo sotto il Quirinale.

 

La crisi politica, in quel momento, raggiunse una fase di stallo, risolta solo dalle trattative. Per descrivere questa fase, ci affidiamo nuovamente alle parole di Albanese: “Mentre in tutta Italia la mobilitazione fascista avanzava, le trattative politiche per risolvere la crisi procedevano in maniera febbrile. La revoca dello stato d’assedio tuttavia non concedeva altre possibilità se non la nomina di una personalità molto vicina alle posizioni fasciste e capace di gestire la smobilitazione delle squadre e garantire il contenimento della violenza […] l’unico candidato possibile per questo ruolo era Benito Mussolini”.

 

Mentre ciò accadeva, però, qual era la situazione delle camicie nere “marcianti” su Roma? Sotto un’acqua torrenziale, in circa 16mila uomini attendevano il via libera dei quadrumviri per assaltare la capitale. Fermi nelle località alle porte della città, questi ottennero di poter entrare solamente il 30 ottobre, una volta tolti i blocchi stradali ordinati dall’esecutivo Facta. Già era noto anche a loro, nondimeno, che Mussolini aveva ricevuto l’incarico di governo. La presa militare della città si risolse così in una sfilata autorizzata dalle massime autorità dello Stato.

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