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Un piano per “la cessione generale dei poteri dello Stato”: quando i quadrumviri definirono il programma della marcia su Roma

Qual era il piano dei fascisti per conquistare il potere? Dai giorni della preparazione all’attuazione, la marcia su Roma subì qualche cambiamento in corsa, riuscendo comunque, tramite una duplice azione militare e diplomatica, a centrare l’obiettivo. Ecco l’ultima puntata di “Cos’era il fascismo”

Foto tratta da wikipedia
Di Davide Leveghi - 16 ottobre 2022 - 14:21

TRENTO. Insigniti da Mussolini della carica di capi militari dell’imminente marcia (QUI l’articolo), i quadrumviri, riuniti nella località ligure di Bordighera il 18 ottobre 1922, definivano un primo piano per l’accerchiamento di Roma. Diviso in due fasi, il programma dell’azione militare – già ampiamente sbandierata dalla pomposa retorica fascista, ma nondimeno sottovalutata dalle autorità e dai ceti dirigenti (QUI l’articolo) – prevedeva dapprima il concentramento in quattro località, infine la convergenza delle squadre su Roma.

 

Stabilita la sede di comando delle operazioni nella città di Perugia, le squadre si sarebbero come detto concentrate in quattro località poco lontane dalla capitale. Santa Marinella, Monterotondo, Tivoli e il Volturno (scartato a favore di Foligno) avrebbero visto la concentrazione delle camicie nere, pronte poi a calare su Roma, dimostratasi nei mesi precedenti piuttosto recalcitrante nei confronti del fascismo.

 

Nessuna occupazione delle principali città centro-settentrionali del Regno fu prevista in questo piano. A preoccupare maggiormente la dirigenza fascista erano semmai i centri del Meridione, dove erano stanziate importanti truppe e dove la presenza del partito era assai meno rilevante. Dopo Bordighera, Balbo, De Vecchi, De Bono e Bianchi definirono in altre riunioni l’imminente azione. Effettuato un ulteriore incontro con i comandanti di zona – l’Italia era stata infatti divisa in 12 aree – il piano si venne così definendo.

 

Innanzitutto, il la l’avrebbe data la mobilitazione delle camicie nere. A seguito degli incontri con i capi delle squadre, l’iniziale inattività nelle città del Centro-Nord lasciò spazio alla decisione di occupare militarmente tutte le principali città del Regno. O meglio, di occupare tutti i palazzi del potere, dalle prefetture alle questure, e così i gangli dell’informazione e delle comunicazioni, dalle stazioni dei treni alle poste e telegrafi, e le sedi antifasciste.

 

Occupati gli edifici pubblici in tutte le principali città del Regno – cosa che avvenne, con poche ma significative eccezioni, senza alcun spargimento di sangue – le camicie nere si sarebbero dovute concentrare nelle quattro città suddette. Giunte per lo più nella notte tra il 27 e il 28 ottobre, le forze fasciste raggiunsero nelle suddette località le 16mila unità, con una rilevante predominanza del fascismo toscano.

 

Uno dei suoi principali esponenti, il ras Dino Perrone Compagni, guidò la cosiddetta “colonna Lamarmora” da Santa Marinella, mentre tanti altri furono i toscani al comando di Umberto Zamboni, militare a cui era stato affidato il compito di occupare Foligno. Mentre la concentrazione nelle località stabilite, assieme alle azioni nei più importanti centri d’Italia, doveva mostrare la forza militare del fascismo, dall’altra parte Mussolini percorreva l’altro binario: quello della diplomazia.

 

Punto finale della lunga partita che il capo del fascismo aveva intrapreso era l’ultimatum al governo Facta per la cessione dei poteri dello Stato. Tale iniziativa, che vide per un momento la possibilità di uno scontro frontale fra le squadre e le forze armate, finì alla fine per veder vincitore Mussolini. Determinante, come noto, sarà l’atteggiamento del re Vittorio Emanuele III (QUI un approfondimento), contrario alla proclamazione dello stato d’assedio decisa dall’esecutivo liberale.

 

Al punto quattro del piano, poi definito nei giorni a venire e in particolare nella decisiva adunata di Napoli del 24-26 ottobre (QUI l’articolo), v’era finalmente l’entrata a Roma. Qui i fascisti prevedevano già possibili scontri con gli antifascisti, effettivamente avvenuti nei giorni della marcia. La presenza di nuclei particolarmente battaglieri era infatti cosa nota, tanto che i quartieri popolari, Testaccio e San Lorenzo su tutti, già s’erano distinti per reazioni violente contro la boria e la prepotenza delle camicie nere.

 

Rispetto a questa evenienza, scriveva lo storico di regime Giorgio Alberto Chiurco nella sua Storia della rivoluzione fascista (1929): “Nel doloroso caso di un investimento bellico la Colonna Bottai (Tivoli e Valmontone) accerchierà il quartiere S.Lorenzo entrando dalla porta Tiburtina e da Porta Maggiore, la Colonna Igliori con Fara (Monterotondo) premerà da Porta Salaria e da Porta Pia e la Colonna Perrone (Santa Marinella) da Trastevere”.

 

Il piano, riguardo all’entrata a Roma, prevedeva dunque la presa dei palazzi del potere, dei ministeri in particolare. Un “piano b” – l’exit strategy, come si suol dire -  era invece previsto in caso di sconfitta dei fascisti, contro cui si schieravano truppe decisamente più numerose e meglio armate (si parla di circa 28mila uomini nella sola città di Roma). Dal canto suo, Mussolini seguì le operazioni da Milano, pronto, in caso di fallimento dell’azione, a lasciare l’Italia in direzione della vicina Svizzera.

 

Sempre nel caso di fallimento, invece che a Roma il governo fascista si sarebbe formato in una città dell’Italia centrale. È da qui, infatti, che le forze si sarebbero riorganizzate, che le squadre del Nord sarebbero discese in forze per riprendere l’azione su Roma e mettere le mani sulla capitale. Come noto, ciò non sarebbe avvenuto. Dopo giorni convulsi e tragici, la capitale, il 30 ottobre, avrebbe visto entrare in divisa e in armi le camicie nere. Il re, intanto, aveva già affidato a Benito Mussolini il compito di formare un nuovo governo.

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