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Il “discorso del bivacco”, fra minacce e promesse. Quando Mussolini rivendicò la vittoria delle “camicie nere” di fronte alla Camera

Il 16 novembre 1922, il nuovo capo del governo Benito Mussolini pronuncia davanti alla Camera il suo primo discorso. Passato alla storia come il “discorso del bivacco”, è un insieme di minacce e promesse, con cui si inaugura un interregno di consolidamento del potere fascista. Prosegue la rubrica “Cos’era il fascismo”

Di Davide Leveghi - 14 novembre 2021 - 13:01

Da molti, anzi da troppi anni, le crisi di Governo erano poste e risolte dalla Camera attraverso più o meno tortuose manovre ed agguati, tanto che una crisi veniva regolarmente qualificata come un assalto, ed il Ministero rappresentato da una traballante diligenza postale. Ora è accaduto per la seconda volta, nel volgere di un decennio, che il popolo italiano - nella sua parte migliore - ha scavalcato un Ministero e si è dato un Governo al di fuori, al disopra e contro ogni designazione del Parlamento. Il decennio di cui vi parlo sta fra il maggio del 1915 e l'ottobre del 1922. Lascio ai melanconici zelatori del supercostituzionalismo il compito di dissertare più o meno lamentosamente su ciò. Io affermo che la rivoluzione ha i suoi diritti. Aggiungo, perché ognuno lo sappia, che io sono qui per difendere e potenziare al massimo grado la rivoluzione delle «camicie nere», inserendola intimamente come forza di sviluppo, di progresso e di equilibrio nella storia della Nazione. Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. Mi sono detto che la migliore saggezza è quella che non ci abbandona dopo la vittoria. Con 300 mila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il Fascismo. Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto” (dal “discorso del bivacco” di Benito Mussolini, 16 novembre 1922)

 

TRENTO. Tra omaggi al sovrano, minacce esplicite ai nemici e promesse altisonanti, Benito Mussolini compariva per la prima volta di fronte alla Camera in veste di presidente del Consiglio il 16 novembre del 1922. Nel suo discorso, passato alla storia come il “discorso del bivacco”, il capo del fascismo – come scrive lo storico Matteo Millan in Squadrismo e squadristi nella dittatura fascista – “afferma l’origine extra-parlamentare del suo governo e ribadisce ‘l’importanza del suo esercito privato’ nella recente conquista del potere”.

 

Sono passate poco meno di tre settimane dalla Marcia su Roma (QUI l’articolo), culmine di anni di preparazione del terreno attraverso la violenza squadristica. La dittatura vera e propria è ancora lungi dall’essere imposta, i modelli autoritari vengono plasmati in una fase di “interregno” dove il ricorso alla violenza è tutt’altro che concluso. Si apre il cantiere del totalitarismo fascista, le cui fondamenta verranno gettate nell’anno decisivo del 1926. Le cosiddette “leggi fascistissime”, che sgombrano il campo dalle residue libertà democratiche – già nei fatti compromesse dalle pratiche fasciste – l’entrata in vigore del Testo unico di sicurezza pubblica, l’emanazione del nuovo statuto del Partito, con cui si definisce il sistema gerarchico attorno alla figura del duce, daranno avvio alla costruzione del primo totalitarismo della storia, quello fascista appunto.

 

Nella società italiana, gli strascichi delle violenze che hanno attraversato il Paese si fanno sentire. Non solo lo squadrismo ha preparato il terreno alla presa del potere, ma ha forgiato la stessa mentalità fascista. Il ricorso a metodi illegali alternato a metodi legali caratterizzerà il sistema governativo fascista, in un contesto di progressiva marginalizzazione del fascismo più intransigente. Ciononostante, diversi saranno i momenti, specialmente nel periodo “matteottiano” (dall’estate del 1924), in cui il governo fascista si troverà in difficoltà proprio in virtù dell’estremismo dei ras.

 

Il discorso del 16 novembre 1922, seguito da un’arringa decisamente più blanda in Senato – i cui rappresentanti erano di nomina regia – restituisce uno spaccato illuminante sul primo fascismo. I toni sono aggressivi e intimidatori, la rivendicazione della legittimità della violenza come strumento per conquistare il potere esplicita. Il disprezzo per il parlamentarismo è espresso nella celebre frase che per metonimia è arrivata ad identificare il discorso stesso: “Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto”.

 

L’uomo forte Mussolini si presenta al popolo italiano ed ai suoi rappresentanti – in larga parte esprimenti tra l’altro forze antifasciste – come l’unico in grado di portare l’Italia verso un futuro migliore. Si traccia un parallelo fra la Grande Guerra e la “rivoluzione fascista”, come momenti decisivi per la storia nazionale. Il mito del conflitto mondiale è così “sequestratodai fascisti, come dimostrato dal caso esemplare dell’Altare della Patria e del Milite Ignoto, trasformati in palcoscenico privilegiato delle ricorrenze e dei riti del fascismo (QUI un approfondimento).

 

Il partito-milizia, nato l’anno precedente (QUI l’articolo), aleggia come un’inquietante ombra su ogni forma d’opposizione e la violenza, oltre ad essere uno strumento annichilente di ogni nemico, vero o presunto, si converte paradossalmente in un’arma di creazione del consenso. Scrive ancora Millan: “Tra i compiti della violenza non c’è quindi solo la repressione del dissenso ma anche il consolidamento di forme embrionali di consenso. Lo squadrismo costituisce inoltre un veicolo efficace per diffondere in ampi strati della società una ‘collettiva assuefazione alla violenza’ e un abbassamento della ‘ soglia di sopportabilità morale’ che influenzano in maniera significativa una ‘forma ambigua di complicità e consenso’ nei confronti della dittatura fascista e delle sue politiche liberticide, repressive e razziste. Un ‘consenso’ che non significa una libera accettazione quale prodotto di una libera scelta”.

 

Ringraziato il re, a cui i fascisti hanno già rivolto omaggi in diverse occasioni (vedi ad esempio nella marcia su Bolzano e Trento, QUI l’articolo), Mussolini si appella poi a tutte le componenti sociali. “Chi dice lavoro, dice borghesia produttiva e classi lavoratrici delle città e dei campi – incalza il neo capo del Governo – non privilegi alla prima, non privilegi alle ultime, ma tutela di tutti gli interessi che si armonizzino con quelli della produzione e della Nazione”. Il consenso, nel fascismo, si fabbrica, con il bastone e con la carota, soprattutto verso le classi lavoratrici, piegate dalla violenza squadrista.

 

Alla promessa di condurre una politica estera “di dignità e di utilità nazionale”, senza violare i trattati ma imponendo agli Alleati “quel coraggioso e severo esame di coscienza che essi non hanno affrontato dall’armistizio ad oggi”, segue poi l’impegno a contrastare ogni forma d’illegalismo, perfino quello “eventuale” dei fascisti. In entrambi i casi, come analizzato anche nel caso dell’attentato di Bologna del 31 ottobre ’26 (QUI l’articolo), ad emergere è il tatticismo mussoliniano. Dalla sua il fascismo, almeno in politica interna, ha le camicie nere, sempre prodighe nel menar le mani.

 

L’appello a Dio chiude il discorso. Mussolini ha appena chiesto i “pieni poteri” alla Camera, una “Camera di morti, di imbalsamati”, scriverà il capo del Partito socialista unitario Filippo Turati, chiamata non “a discutere e a deliberare la fiducia” bensì a “darla”. “Nessuno degli avversari di ieri, di oggi, di domani – concluderà il capo del Governo – si illuda sulla brevità del nostro passaggio al potere. Illusione puerile e stolta come quella di ieri”.

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