Il giro di vite del fascismo: dall’attentato di Zamboni alla criminalizzazione dello squadrismo
L’attentato fallito a Mussolini del 31 ottobre 1926 segnò un momento decisivo per la svolta totalitaria del fascismo. L’entrata in vigore del nuovo Testo unico di pubblica sicurezza non solo colpì le opposizioni ma fu anche determinante per l’irregimentazione definitiva delle anime più riottose dello squadrismo. Continua la rubrica “Cos’era il fascismo”
“Intorno al Duce è tutto un martellare giocondo di cuori ed è una infrangibile barriera di armi e di armati. Il primo sta a provare il consenso; la seconda dimostrerà la forza, occorrendo, e la farà valere” (da Il Popolo d’Italia del 23 novembre 1923)
“Giustizia è stata fatta!” (Italo Balbo a Benito Mussolini, subito dopo l’attentato del 31 ottobre 1926)
TRENTO. Giunta all’incrocio fra via Indipendenza e via Rizzoli, l’auto con a bordo il capo del governo Benito Mussolini imboccò il grande viale che porta verso la stazione. A guidarla v’è il ras onnipotente di Bologna, Leandro Arpinati. Sono le 17.40 del 31 ottobre 1926, quando un colpo di pistola sfiora per questione di millimetri il corpo del duce. La pallottola, sparata da un giovane braccio fattosi spazio tra la folla e il cordone di sicurezza, trapassa la fascia dell’Ordine cavalleresco dei Santi Maurizio e Lazzaro e il bavero della giacca indossati da Mussolini, nonché la tuba appoggiata sulle gambe del sindaco di Bologna Umberto Puppini, seduto lì a fianco.
Arpinati preme sull’acceleratore, allontanandosi dal luogo del fallito attentato. Nel mentre, il corpo del quindicenne Anteo Zamboni, individuato come autore dello sparo, viene orribilmente deturpato dalla folla. Ad inaugurare il linciaggio sono gli squadristi bolognesi di Arconovaldo Bonaccorsi, seguiti a ruota da quelli altrettanto noti di Milano, al comando di Albino Volpi. Martoriato, il corpo di Zamboni riporterà segni di strangolamento, pugnalate e spari.
Il viaggio di Mussolini, nondimeno, seguì poi il programma prestabilito. Raggiunto da Italo Balbo, che brandisce trionfando un pugnale insanguinato, declamando che “giustizia è stata fatta”, il duce sale sul treno in direzione di Forlì. “L’episodio criminale dell’ultimo momento – telegraferà il giorno successivo al ras bolognese Arpinati – non offusca la gloria della giornata”.
È la quarta volta nell’ultimo anno che Benito Mussolini scampa ad un attentato. Le dinamiche, mai chiarite, troveranno nella figura del giovane anarchico quindicenne Anteo Zamboni il responsabile ideale del fallito assassinio del capo del governo, scartando ogni possibile complotto dei fascisti intransigenti, come paventato – ed immediatamente coperto – dalle autorità impegnate nelle indagini.
D’altra parte – come scrive lo storico Matteo Millan nel suo bel saggio Squadrismo e squadristi nella dittatura fascista (2014) – “il fallito attentato fu il pretesto per una radicale riconfigurazione dei provvedimenti per la gestione dell’ordine pubblico, con ricadute pesanti sui diritti dei sudditi del Regno”. Passano appena 6 giorni, infatti, che il Consiglio dei ministri adotta il Testo unico di Pubblica sicurezza, conosciuto anche con l’acronimo Tulps. Ispirato dal nume tutelare della giurisprudenza fascista Alfredo Rocco, il testo unico sancì di fatto il giro di vite decisivo per l’edificazione della dittatura fascista.
Al di là delle norme dirette a sciogliere ogni organizzazione d’opposizione e a mettere fuori legge ogni voce contraria o critica verso il regime, il testo unico introdusse elementi utili anche a “correggere” e rendere “utilizzabili” i vecchi squadristi più riottosi attraverso il nuovo strumento del confino. Immaginato principalmente per piegare le volontà degli antifascisti, tale soluzione venne adottata anche verso quelle camicie nere della prima ora, poco propense ad accettare la normalizzazione del regime. La finalità, pertanto, era quella di rafforzarne subordinazione e obbedienza. E così avvenne, per molti, con il “riciclo” in più o meno importanti posizioni del regime, dell’amministrazione pubblica o delle forze di sicurezza.
L’istituzione della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, nel gennaio del 1923, tentò in primis di irregimentare le squadre d’azione, protagoniste assolute nel creare il clima necessario per la presa del potere. La loro violenza, scatenata da una parte contro le organizzazioni antifasciste, dall’altra contro le istituzioni liberali, fu altrettanto utile nel dopo-Marcia assumendo – come scrive sempre Millan – “le forme di un micro-terrorismo quotidiano, intriso di elementi politici ed elementi para-criminali”, il cui scopo risiedeva non solo nello “sradicare comportamenti e forme di opposizione esplicita al regime, ma anche nel creare sentimenti di assuefazione e rassegnazione propedeutici all’accettazione del programma politico fascista”.
Cuore pulsante dell’ideologia fascista, lo squadrismo fu pertanto fenomeno centrale in diverse fasi della storia del totalitarismo italiano. Difficilmente ed ambiguamente contenuto dopo la presa del potere, fu oggetto di una vera e propria criminalizzazione alla fine degli anni ’20, atta innanzitutto a depoliticizzarlo. Ciò avvenne, nondimeno, con modalità strumentali e lo scopo di riassorbire i soggetti più violenti e radicali nel nuovo apparato repressivo del regime.
Oltre a queste conseguenze di lunga durata, scatenate dall’attentato, il 31 dicembre 1926 ebbe inoltre degli effetti di ben più breve respiro, anche se altrettanto sanguinosi. Le rappresaglie, infatti, scuotono il Paese. A Milano, l’1 novembre gli squadristi del circolo Melloni sequestrano in casa sua il segretario della Camera del lavoro Ulisse Brigatti. Bendato, viene fatto salire su un’auto, portato alla sede di un gruppo rionale e ripetutamente pestato. Abbandonato in campagna, Brigatti riuscì a stento a raggiungere l’ospedale, dove si fece curare le ferite senza però denunciare gli aggressori. La paura di un’ulteriore rappresaglia lo convinse a tenersi tutto per sé.
In tutta Italia le sedi dei quotidiani e gli studi degli avvocati antifascisti vengono devastati. A Genova le camicie nere locali danno fuoco alla sede del quotidiano socialista Il Lavoro, mentre le squadre assediano l’abitazione del deputato del Psu Francesco Rossi, difesa dalle forze dell’ordine. Si scatenano degli scontri ed uno squadrista, Vittorio Nizzola, riesce a penetrare nel palazzo. Sorpreso mentre cerca di scassinare un cassetto, fredda con un colpo di pistola un carabiniere. Negli scontri all’esterno, invece, le forze dell’ordine feriscono a morte due camicie nere. Al funerale del militare, militi e carabinieri sfilano fianco a fianco. Per evitare crisi politiche, Nizzola verrà poi imbarcato con documenti falsi su un piroscafo in direzione Sud America.