Quirinale, dacci oggi la nostra Maratona Tv quotidiana e restituisci il telecomando con buona pace di Mieli, Travaglio, Sallusti e Damilano
Giornalista, ha lavorato per Alto Adige, Gazzettino e Trentino
Chi l’ha detto che in Italia non c’è la certezza della pena? C’è, eccome se c’è. Basta accendere la Tv elettoral-presidenziale. Da ieri è iniziato un inesorabile vaniloquio a reti unificate. Quanto durerà? Probabilmente tanto. Certamente troppo. La pena dunque. Gli italiani – tutti gli italiani, belli o brutti – sono condannati alla pena di una “commentiade” senza orario, senza vergogna e con qualche bandiera che indica partigianerie malcelate. Sì, non hanno alcuna vergogna nell’affermare un minuto dopo ciò che hanno smentito un minuto prima. Non hanno vergogna (semmai il contrario e cioè un crogiolarsi megalomane) nel praticare l’attitudine trasversale a nobilitare la vacuità di una politica approssimata per difetto (dei suoi protagonisti).
Non hanno alcuna vergogna nel vestire il poco, spesso il nulla, di solennità parolaia. Se l’umiltà non fosse una dote morta e sepolta da mò, i soloni dell’interpretazione dei fatti politici (che quasi sempre sono misfatti) se la caverebbero con un umano “non ci capisco un c….”. E in quanto a popolarità, farebbero bingo. Invece no. Eccoli tutti ingaggiati – forse stanchi ma felici della loro onnipresenza – dentro maratone intere, mezze maratone, incursioni pettegole, presuntuose e a volte ridicole: prima, durante e dopo i pasti o le merende. Il telecomando? In questi giorni è un aggeggio inutile, frustrante. Il telecomando permette di cambiare programma ma non garantisce più alcuna fuga dall’irrealtà delle chiacchiere da bar elevate a saggistica. Cambiare programma era un’opzione salvifica di fronte ai grandi fratelli, le piccole sorelle o i nipoti picchiatelli di una tv che si picca di intrattenere senza più riuscire a trattenere i neuroni nella loro sede operativa (il cervello).
No, adesso non c’è scampo. I canali, tutti i canali, sono diventati “fiumi di parole” (copright da riconoscer ai bistrattati Jalisse). Non c’è argine. Di qui a quando – più dopo che prima – avremo un Presidente della Repubblica quei fiumi esonderanno. Le parole della “compagnia di giro” non solo giornalistica che imperversa sulle reti pubbliche e private si faranno sempre più travolgenti: incomprensibili. Saranno sempre più improvvisate e sempre più contraddittorie. Le parole, i fiumi di parole, tracimeranno. Se il pessimo giorno si vede dal mattino - (ieri la prima eterna “chiama” e le prime maratone, oggi la replica, domani chissà) – sarà utile rifugiarsi nella fede. Se esiste un Dio del senso della misura lo supplicheremo in ginocchio anche da laici oppure da agnostici.
“Signore pietà, lasciaci almeno mezz’ora senza Mentana, senza Mieli, senza Sallusti e senza Belpietro. Lasciaci il diritto di rovinarci la psiche votando per i “Tali e quali” o piangendo assieme ai falsari della posta di Maria (De Filippi)”: ecco, la preghiera potrebbe essere questa. O un’altra, fate voi. Sarebbe necessario, vitale, che un momento topico quale quello dell’elezione di un Presidente non si riducesse ad un format televisivo (per altro il peggiore possibile) basato sull’ossessione. L’ossessione egocentrica di chi lo conduce e di chi lo anima. L’ossessione incolpevole di chi è costretto a subirlo. Nel primo giorno del “delirio dei pareri” si è usciti frastornati, abbacchiati, più disinteressati di prima e più incazzati di prima. La politica dei “quaquaraquà” ad ogni latitudine è purtroppo un indistinto di miserie, mezze tacche, mezzucci. È un caravanserraglio di sopravvalutati e di sottosviluppati che per fare gli spiritosi scrivono Amadeus sulla scheda. Stanno estinguendosi le mosche bianche della dignità, quei pochi che hanno una visione slegata dalla parrocchia o dal guadagno (di voti) facile.
Grandi Elettori per un infimo cabotaggio. Nel segreto di un catafalco piazzato nell’emiciclo parlamentare possono finalmente sentirsi giganti nell’anonimato: giganti di invidie, vendette o fisime da tiratori per nulla franchi. Hanno i loro obiettivi, non precisamente nobili, quando s’aggrappano ad una pensione immeritata e danarosa. Votassero “Vota Antonio”, come Totò, avrebbero almeno il senso dell’umorismo. Se la politica italica è più che altro questa, (al lordo di leader che dicono quel che non pensano e pensano quel che non dicono), che cosa ci sarà mai da “interpretare” con piglio dottrinale? Nulla. Non a caso gli stakanovisti della commentiade incespicano un passo sì e un altro anche. Sono chiamati a riempire un tempo drammaticamente dilatato senza cedere al sonno e alla noia? Le provano tutte, ma proprio tutte. Salvini esce col musone da un incontro? Ecco che parte un saggio a più voci sulla fisiognomica politica. Si accalorano sul significato di una smorfia tanto il giornalista destro quanto quello sinistro. Gigioneggiano prendendosi sul serio, ma senza serietà.
Letta e Conte si nascondono semplicemente perché non hanno ancora nulla da comunicare? Ecco che la genia dei commentatori inaugura la versione pulp di “Chi l’ha visto” (che di pulp ha già di suo). È il trionfo dei retro scenisti? Ma no, è rumore. Anzi, è fastidio. Schiere di giornalisti “sul campo” (per differenziarli dalle schiere di giornalisti da studio) fanno i segugi. Sono impacciati (e dunque simpatici) come i personaggi dei cartoons. Per dare materia di dibattito a dibattiti senza materia (grigia) rincorrono le auto con i lampeggianti blu. Si buttano davanti a quelle auto e infilano un microfono nei finestrini a mezz'asta per e registrano qualche grugnito, o qualche battuta. I maratoneti della chiacchiera, in studio, disquisiscono pure sull’intonazione.
È appena incominciata. Non è dato sapere quando finirà ma non se ne può già più. Se non ci daranno un Presidente in tempi ragionevoli saremo tutti in grave pericolo di sopravvivenza. La commentiade ci imprigiona ad una dimensione per così dire trascendentale, nel senso che trascende da ogni accenno di realtà. Eppure la realtà esiste e nell’Italia che non passa le ore a parlarsi addosso è sempre più anormale: il lavoro che non c’è, le bollette che esplodono, il virus che non retrocede, i nichilisti anti vaccino che se schiattano chissenefrega ma che se rubano posti letto ai malati ci frega eccome. E ancora i ragazzi che dovrebbero essere a scuola e invece muoiono in cantiere. E altro, molto altro. Se le maratone si facessero su questo forse non si sarebbe tentati di buttare la tv dalla finestra in un quotidiano capodanno di disperazione.
Invece no. C’è l’elezione del Presidente e la compagnia di giro che gira da uno studio tv all’altro è in fase orgasmica: teorizza, prevede, fa cilecca e probabilmente gode della depressione di chi ascolta con progressiva assuefazione al niente.
Tra pochi giorni inizia Sanremo: non sarà che tra Elisa e Morandi si infilerà un Damilano che duetta con Sallusti? Incominceranno a giorni anche le Olimpiadi invernali cinesi: sarebbe un incubo vedere interrotto lo slalom da un Mieli o un Belpietro che si tirano (verbalmente) i paletti. Dopo breve sosta tornerà anche il campionato di calcio.
Se al posto di Lautaro ci ritrovassimo Travaglio che vuol tirare un rigore nella porta dell’odiato Draghi? Dio della misura, santi tutti, fateci la grazia. Dateci un Presidente in fretta. Ridate vita e funzione al telecomando. Vogliamo poter cambiare canale senza ritrovarci ovunque uno Scanzi o un De Angelis che replicano su Mediaset quel che hanno appena sentenziato in Rai. O viceversa. No, non è un fatto di puzza al naso. È, al contrario, un bisogno vitale di respiro.