"Soltanto a piedi si conoscono i luoghi. Se oggi c’è più delinquenza è anche perché la polizia si muove in macchina". Paolo Rumiz: tra spopolamento e abbandono delle montagne
"Il territorio va pattugliato: non intendo con le squallide ronde che venivano proposte dalla Lega, ma è il modo di riappropriarci di ciò che è nostro, dello spazio pubblico, per impedirne la privatizzazione: noi ci lasciamo portare via ogni anno centinaia di ettari dalle mafie, da multinazionali che si comprano le nostre fonti, le nostre acque, senza battere ciglio. Perché? Perché ci siamo allontanati dai territori, come nel caso delle terre alte". La seconda parte della chiacchierata con lo scrittore e giornalista triestino si infila tra i grovigli di alcune dinamiche sociali che oggi caratterizzano territori montani della penisola
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di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
“Quando ho fatto a piedi la via Appia, un contadino mi ha detto: ‘È soltanto a piedi che si conoscono i luoghi. Se oggi c’è più delinquenza è anche per questo, perché la polizia si muove in macchina’. È a piedi che si battono i territori, che si battono i rioni, che si battono le città, che si attraversano le campagne. Il territorio va pattugliato: non intendo con le squallide ronde che venivano proposte dalla Lega, ma è il modo di riappropriarci di ciò che è nostro, dello spazio pubblico, per impedirne la privatizzazione: noi ci lasciamo portare via ogni anno centinaia di ettari dalle mafie, da multinazionali che si comprano le nostre fonti, le nostre acque, senza battere ciglio. Perché? Perché ci siamo allontanati dai territori, come nel caso delle terre alte”.
La seconda parte della chiacchierata con lo scrittore e giornalista Paolo Rumiz (QUI trovate la prima parte) si infila tra i grovigli di alcune dinamiche sociali che oggi caratterizzano i territori montani della penisola, come lo spopolamento e il conseguente abbandono.
Uno dei principali obiettivi del nostro quotidiano è quello indagare i rapporti tra società e territori montani. Da questo punto di vista che acque stanno “navigando” i rilievi italiani?
Una narrativa di destra – “alla Trump” per intendersi – concentra tutto sugli immigrati: immigrati uguale pericolo, immigrati uguale identità della “razza bianca” che viene in qualche modo annacquata.
Ma in Italia – che tranne la Pianura Padana e altre due o tre piccole pianure è un Paese montagnoso – si è fatto qualcosa per impedire la desertificazione delle montagne? Sappiamo quanto triste e deprimente sta diventando quel meraviglioso luogo, che è l’Appennino, con i suoi canti, con i suoi riti antichi, con quello spirito tenace che ha fatto sì che lì nascesse il monachesimo, che ha portato il proprio segno in tutta Europa dopo la fine dell’Impero Romano?
Allora noi oggi dobbiamo ammettere di essere di fronte a due ipocrisie egualmente letali. La prima è l’ipocrisia dei democratici i quali, per l’ossessione di parlare politicamente corretto, evitano di dire che un ingresso non regolato di stranieri appartenenti a culture distanti dalla nostra provoca fatalmente degli scompensi identitari. Cioè: ignorare che questo esiste è sciocco, ma non lo si dice perché si ha paura di essere considerati di destra. Il problema esiste e basta affrontarlo. Se non lo affronti allora diventa drammatico, ma se lo affronti con intelligenza diventa una grande opportunità di crescita economica e culturale.
Dall’altra parte c’è invece l’ipocrisia di destra, la quale finge di non sapere che l’assenza di stranieri manderebbe in bancarotta i nostri paesi che non fanno più figli e farebbe crollare una fetta importantissima di economia che ha bisogno non solo di manodopera poco pagata, ma anche di intelligenze nuove. Chi, più di un immigrato, desidera lavorare e affrancarsi? Chi, più di un immigrato che da bambino ha sofferto, saprebbe apprezzare, molto più di noi, i vantaggi della democrazia?
Un altro elemento importante che noi abbiamo perso di vista sono le guerre. Continuiamo a credere che le guerre non possano più ripetersi in Europa, dopo che si sono già ripetute due volte: Balcani e Ucraina. Ma in realtà è roba nostra: nell’Ucraina occidentale io mi sentivo come in Francia. La Jugoslavia del nord è ciò che di più vicino può esistere all’Austria e, attraverso la Dalmazia, anche all’altra parte dell’Adriatico cioè il Veneto, le Marche.
Ricordo, per tornare su quella che hai definito “l’ipocrisia dei democratici”, che in una vecchia intervista sostenevi che ignorare la xenofobia genera intolleranza…
Arriva un sacco di gente di lingue, culture, profumi e cucina diverse. Prova ad andare a Prato nei quartieri dei cinesi: sembra già di essere in Cina. E allora uno dice: “Dov’è l’Italia qui?”. È comprensibile che molte persone siano preoccupate. Ma lì dietro c’è la mano libera delle mafie, quindi spesso siamo noi gli autori di questa invasione, perché ci conviene avere chi lavora nei sottoportici e nelle cantine, pagato in bianco e in nero. Tiene attiva la nostra concorrenza.
D’altro canto, per seguire il filo del tuo pensiero, c’è chi sulla paura delle diversità specula a livello politico…
Finché gli stranieri che delinquono ci sono, il voto dei populisti sarà sempre alto. Quindi se ai populisti conviene avere stranieri che delinquono, non faranno mai controlli reali alle frontiere. È per questo che li lasciano vagabondare senza lavoro, perché alla fine diventano preda della mafia. Se noi mettessimo in piedi dei centri di formazione professionale già nei paesi di provenienza sarebbe un’opportunità meravigliosa che costerebbe mille volte meno di fare i centri di raccolta in Albania.
Per non parlare infine, e questo è un elemento fondamentale, che giornali e mezzi di comunicazione sono complici di una narrativa che dà più evidenza ai crimini degli stranieri rispetto a quelli degli indigeni, di quelli nati qui. Anche i giornali democratici cadono vittima di questa narrativa, dando grande risalto ai crimini stranieri, perché pensano che la gente voglia sentirsi dire questo.
Noi continuiamo a rappresentare noi stessi attraverso una gigantesca finzione.
Hai esplorato i rilievi in lungo e in largo e hai dedicato tante pagine ai territori montani, magari spingendoti col pensiero dove il corpo non riesce ad arrivare. Come vivi oggi la montagna?
Non tanto per età, anche se comunque ho settantasette anni suonati, ma non mi interessa più niente delle altezze. Mi importa incontrare persone e i viaggi per me sono assolutamente l’incontro. Mi interessano più i sentieri che le cime, che siano sentieri costieri, di montagna o di collina. Preferisco questo: luoghi in cui vedo venire incontro un uomo o una donna con i quali parlare, con i quali scambiare delle cose. È questo che mi interessa. Io adesso sono scappato da Trieste e passo tre quarti del mio tempo in Slovenia, in un piccolo paese agricolo di ottanta abitanti, fortunatamente pieno di bambini, e lì ho riprovato il piacere di percorrere un reticolo intricato di sentieri che mi danno sempre nuove sensazioni e nuove sorprese partendo da casa mia, senza il bisogno di prendere l’automobile. C’è un’altra cosa che vorrei dire. Quando ho fatto a piedi la via Appia, un contadino mi ha detto: “È soltanto a piedi che si conoscono i luoghi. Se oggi c’è più delinquenza è anche per questo, perché la polizia si muove in macchina”. È a piedi che si battono i territori, che si battono i rioni, che si battono le città, che si attraversano le campagne. Io ho fatto a piedi i territori che Roberto Saviano ha indicato come Gomorra. Tutti mi dicevano di non andare. Io ci sono andato lo stesso e ho fatto solo meravigliosi incontri. Il territorio va pattugliato: non intendo con le squallide ronde che venivano proposte dalla Lega, ma è il modo di riappropriarci di ciò che è nostro, dello spazio pubblico, per impedirne la privatizzazione: noi ci lasciamo portare via ogni anno centinaia di ettari dalle mafie, da multinazionali che si comprano le nostre fonti, le nostre acque, senza battere ciglio. Perché? Perché ci siamo allontanati dai territori, come nel caso delle terre alte; perché non badiamo più a questi luoghi, perché sono diventati terre di cani abbandonati pericolosissimi. Ce n’è un milione in Sicilia, cinquecentomila in Calabria. Camminare è diventato difficilissimo da questo punto di vista. Hai bisogno di munirti di cose impensabili una volta: peperoncino, scacciacani, bastoni, … Questi cani randagi sono il segno dell’abbandono da parte nostra. Paradossalmente, spesso sono quelli che ci parlano di territorio, che ci riempiono con la retorica delle identità locali, dei dialetti – cose meravigliose per me –, che poi abbandonano i territori.
L’abbandono delle terre alte e, più in generale, delle aree interne è un riflesso dello spopolamento…
La Lega Nord è nata perché nei villaggi chiudeva il bar, chiudeva l’ufficio del parroco, chiudeva la panetteria, non arrivavano più i giornali, ma non è che le cose siano migliorate. Tornando alle cartografie (ne avevamo parlato nella prima parte dell’intervista n.d.r.), una cosa che mi ha colpito sempre è come le carte si banalizzino. Oggi non abbiamo più la cultura delle carte dettagliate. Se io voglio sapere veramente cosa c’è nell’Italia profonda devo consultare le carte del 1960, le vecchie carte dell’IGM. Ma se guardo le carte di oggi ci sono sempre più spazi vuoti. Nella realtà magari i paesi ci sono ancora, magari c’è una frazione con sei abitanti, ma non è più segnata, e quell’assenza di segnalazione geografica è il preludio del suo abbandono totale.
Come invertire la rotta dello spopolamento e quindi dell’abbandono?
Quando ci furono gli ultimi episodi di peste in Europa, i governanti dell’Appennino – che furono i signori soprattutto della zona delle Marche e della Romagna – si trovarono di fronte a terre desertificate che si inselvatichivano e quindi non producevano più. C’era stata una quantità spaventosa di morti. E allora cos’hanno fatto? Dei bandi, che hanno diramato dall’altra parte dell’Adriatico dove c’erano popolazioni in parte risparmiate dalla pestilenza. Bandi dov’era scritto: “Se venite vi togliamo la tassazione per una serie di anni, vi diamo una coppia di manzi, una casa vuota e dei campi da coltivare. Se venite e se li coltivate, perché noi vi controlleremo per vedere se lo fate veramente, avrete tutto questo”. È arrivata moltissima gente. Se tu guardi l’elenco telefonico di Ancona trovi che ci sono un sacco di nomi che cominciano per Schia: Schiavi, Schiavetti, Schiavoni. Perché erano slavi. Dal medioevo in poi, fino a quando l’idea nefasta del nazionalismo non ci ha rovinati, era normale importare popolazioni.
Altro esempio: nei Balcani, quando i turchi sono andati sotto le mura di Vienna provocando una fuga in massa di popolazioni verso occidente, tra cui i contadini, i vuoti sono – in parte e non sempre – stati riempiti da popolazioni slave di cultura musulmana che non erano sicuramente gli abitanti originali. Quando poi, dopo pochi anni, l’impero asburgico ha sconfitto gli ottomani e li ha spinti verso sud-est – e centinaia di migliaia di contadini sono scappati verso Istanbul, verso la Macedonia e oltre – si è trovato di fronte a territori largamente disabitati. E che cos’ha fatto? Anche in questo caso dei bandi. È arrivata gente dalla Francia, dall’Italia, dalla Germania, dal Danubio, dalla Cecoslovacchia e hanno colonizzato e rilanciato quelle terre meravigliose. Per dire, la famiglia Illy, quella del caffè, viene da Timișoara, sono immigrati dall’Alto Reno nel Settecento. Questo è l’Europa. È essenziale capire che l’Europa è questo e non identità a compartimenti stagni. Le immigrazioni sono fattori formidabili di rilancio, ma richiedono un potere politico capace di governare la complessità di una simile operazione. Ci vuole tanto a fare una cosa del genere oggi, ripopolando l’Appennino? L’Appennino non ha già delle isole albanesi, greche? Non era Magna Grecia il sud dell’Italia?
Il concetto di nazione non esisteva?
Il mondo era un arcipelago di villaggi, ognuno con la sua lingua, che poteva essere una variante minima della stessa lingua, ma anche una lingua diversa. Ancora oggi in Austria ci sono territori abitati da magiari, c’è chi ancora parla in veneto nella profonda Croazia. Questa è la realtà dell’Europa che noi abbiamo perso a causa della demenza nazionalistica che ci ha portato cento milioni di morti in un secolo. Cento milioni se consideri anche i morti che noi europei abbiamo provocato in territori come l’Africa. Solo il piccolo Belgio ha fatto dieci milioni di morti in Congo, nella coda del Diciannovesimo secolo.