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Cultura

"Le Alpi sono il primo luogo dove i populismi europei si sono manifestati". Dialogo con Paolo Rumiz: dalle nostre montagne ai satelliti di Musk

"Sulle Alpi si è creata l’idea del luogo-rifugio, della fortezza alpina che non si lascia contaminare dalle tempeste della storia e del mondo. Pura illusione. Figuriamoci se agli algoritmi di Elon Musk importa degli spartiacque e delle montagne: arrivano dappertutto". A volte è necessario uscire dai confini fisici dei rilievi per provare a interpretare i fenomeni politici, sociali e ambientali che li coinvolgono indirettamente

di
Pietro Lacasella e Luigi Torreggiani
21 febbraio | 06:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

A volte è necessario uscire dai confini fisici dei rilievi per provare a interpretare i fenomeni politici, sociali e ambientali che li coinvolgono indirettamente.

Se si ha l’obiettivo di comprendere la dinamicità del presente è quasi inevitabile, quindi, lasciare che le riflessioni viaggino, attraversino contrade, città, paesi e, addirittura, continenti, per poi ritornare a posarsi sulle nostre valli e sui nostri monti, arricchite dal ventaglio di prospettive assorbito durante il cammino.

Abbiamo intrapreso questo viaggio insieme a Paolo Rumiz, scrittore e giornalista ed esploratore di (micro e macro) mondi e delle persone che li abitano: è nata una lunga chiacchierata che, sviluppandosi in due articoli, ci accompagnerà dalle vette italiane alle pianure d’Europa, dagli aliti nazional-populisti ai sospiri democratici, dai satelliti statunitensi allo spopolamento delle aree interne.

 

 

Paolo, attraversando le montagne europee durante i tuoi viaggi le hai sentite più come confini o come cerniere?

 

Inizio a risponderti facendo una premessa: lo spartiacque non coincide quasi mai in modo esatto con il confine. Specialmente dalle mie parti dove le acque sono anche sotterranee, il che crea sempre un po’ di confusione tra i nazionalisti, tant’è vero che a furia si sentirci dire che il Monte Nevoso (in sloveno Snežnik) è l’ultimo monte delle Alpi ci dimentichiamo che, geograficamente, le Alpi finiscono molto più avanti, a monte di Rijeka, dove si trova il passo che fa iniziare le Alpi Dinariche.

Detto questo – dato per scontato che c’è un ritorno generale di questa idiozia nazionalista, che ci fa illudere che separati saremmo meno disturbati da eventi negativi esterni, mentre in realtà questo ci esporrebbe maggiormente alle tempeste della globalizzazione – penso che le Alpi, più che marcare differenze nazionali che molto spesso non esistono, siano dei luoghi di rifugio di chiusure, tipo campanilismi, regionalismi. Penso che creino delle tendenze centrifughe. Il primo luogo dove i populismi europei si sono manifestati sono proprio le Alpi. I populismi alpini li chiamo io. Lo si è visto in Savoia, lo si è visto nell’Alta Baviera, lo si è visto ovviamente in Veneto e Lombardia, lo si è visto con la Carinzia di Jörg Haider. Sulle Alpi si è creata l’idea del luogo-rifugio, della fortezza alpina che non si lascia contaminare dalle tempeste della storia e del mondo.

 

 

Ed è effettivamente così oppure è pura illusione?

 

Pura illusione. Figuriamoci se agli algoritmi di Elon Musk importa degli spartiacque e delle montagne: arrivano dappertutto. Da qualche anno noi siamo letteralmente invasi dall’esterno, letteralmente eterodiretti. Soltanto chi ha un'enorme cultura e capacità di resistenza può non farsi portare via da questi pifferai assetati di potere.

 

 

Quanto è grande quindi il paradosso che emerge da un desiderio di chiusura che tuttavia va ad abbracciare ideologie spesso soffiate da fuori?

 

Lo si è visto con la guerra dei Balcani. La Jugoslavia, tra l’altro, è un terreno quasi tutto montagnoso, dove da millenni si sono intrecciate, incontrate, mescolate le etnie. Le differenti componenti della Jugoslavia, attraverso la propaganda sono state portate alla divisione, con l’illusione che separando le parti in causa si sarebbe arrivati alla pace, mentre in realtà tutti si sono scoperti più vulnerabili rispetto ai poteri forti. Quindi questi micro nazionalismi hanno frammentato il territorio e lo hanno reso molto più fragile rispetto al "grande invasore", chiamiamolo così.

 

 

Possiamo leggere un parallelismo con l’attuale situazione europea?

 

Guarda cos’è successo con l’Inghilterra. In Europa si continua testardamente, stoltamente, a illudersi che separati è meglio: la germanicità, l’ispanicità, l’italianità, la slavità,… tutte cose che ci rendono fragili. Molto più fragili di prima. L’Europa ha milioni di difetti, io sono stato il primo a denunciarli, ma se non ci fosse sarebbe cento volte peggio per noi. Saremmo già un feudo non dico tanto degli Stati Uniti, della Russia o della Cina, ma un feudo dei grandi poteri privi di patria che ormai si annidano nell’economia mondiale.

 

 

C'è stato un episodio, durante i tuoi viaggi, che ti ha fatto capire quanto l'Europa sia oggi in pericolo?

 

Quando alla fine della guerra dei Balcani sono arrivati gli Americani, con la cosiddetta pace di Dayton hanno finito per accettare la logica spartitoria dei belligeranti, che è la stessa cosa che adesso sta improvvisamente avvenendo anche per l’Ucraina. Abbiamo i grandi poteri esterni che dicono “ecco si arriva alla pace”. È sufficiente sentire le dichiarazioni pompose di Donald Trump: “Io farò la pace”. Sì, ma a che prezzo? Di dividere i russi culturalmente russi dagli ucraini culturalmente ucraini creando dei mostri e un sacco di infelici, perché non so quanti ucraini dovranno andarsene dalla parte orientale e non so quanti russi dovranno andarsene dalla parte attualmente sotto il controllo di Kiev. Quindi l’idea della separazione dei popoli, della separazione delle identità, della separazione delle culture fa il gioco di chi questa guerra l’ha voluta e dimostra la totale assenza di influenza dell’Europa, perché l’Europa è fondata sulla mescolanza: è un luogo dove ci si sposa liberamente tra appartenenti di paesi diversi, dove i diritti dei francesi sono gli stessi degli italiani o dei tedeschi. Invece, l’idea che la purezza delle identità – che alla fine è un concetto raziale no? – sia una garanzia della pace è un’enorme stupidaggine, perché ad esempio oggi i Balcani rimangono una polveriera più ancora di quando erano un’unica federazione.
Dunque questa idea che la pace si garantisce separando i popoli serve soltanto al cosiddetto “divide et impera”. Divisi siamo solo più fragili ed eterodiretti.

 

 

In un recente articolo che hai scritto su Repubblica sostieni che non bisogna sottovalutare le mappe. Riusciresti a riassumerci brevemente questa riflessione?

 

Oggi siamo tornati a una cosa antica: la dichiarazione delle sfere di influenza. È una cosa che ha fatto malissimo all’Europa da fine Ottocento alla caduta del muro di Berlino. Adesso questa cosa sta tornando fuori, ma con una differenza: la volontà di annettere territori viene dichiarata in anticipo per far sì che diventi realtà. Non è una carta che si adegua alla realtà, ma si fa in modo che sia la realtà ad adeguarsi a una carta. Quello che ha fatto Trump dichiarando “la Groenlandia sarà mia, il Canada sarà americano, il Messico per ora mi prendo il mare, ma mi sa tanto che ci prenderemo anche il resto” è un modo affinché il mondo – che ha una capacità di reazione minore rispetto a un secolo fa – si adatti all’idea. A furia di martellare con i satelliti di questo o di quell’altro, attraverso i social, si abitua la gente a una proposta puramente virtuale che tuttavia, in questo modo, è facile diventi – anche in brevissimo tempo – realtà.
Guardare le mappe, così come vengono disegnate oggi, così come vengono colorate le nazioni, aiuta a capire qual è lo scontro in corso. Confrontando le mappe russe con quelle americane si capisce perfettamente dove ci sono i luoghi in cui le sfere di influenza si sovrappongono e possono generare conflittualità.

 

 

Verranno di notte è il titolo del tuo ultimo libro. Sono arrivati?

 

Direi di sì, perché è di notte che le tastiere degli haters, degli odiatori di professione, si mettono in moto. È di notte che si ha il tempo di ascoltare i veleni che vengono messi in circolo. Fisicamente non sta arrivando nessuno alla porta di casa mia, ma si sono già insinuati dappertutto. A questa cosa si può reagire solo con grande cultura, con la capacità di distinguere, di capire, di leggere, di individuare dietro i veleni chi è il mandante e qual è il suo interesse. Ci vuole una certa maturità e, purtroppo, i veleni sono stati lasciati entrare in noi già attraverso le generazioni più inermi, cioè quelle degli adolescenti se non addirittura i bambini. È una lotta impari, dalla quale ci sveglieremo – forse, perché non ne sono sicuro – quando ci accorgeremo che tutta questa grande tempesta mediatica è utile soltanto a renderci incapaci di reagire, a renderci passivi, a renderci anestetizzati.
È sufficiente guardare quello che succede con Trump. Trump tiene sempre la stampa in stato d’allerta, perché non c’è giorno che non faccia delle dichiarazioni inverosimili o quasi. Le forze autentiche della democrazia sono frastornate da questo bombardamento di annunci: non fanno in tempo a digerirli e a pensare a come reagire che già partono annunci successivi.
Naturalmente è facile rilevare una vulnerabilità da parte delle democrazie che hanno perso gli anticorpi necessari all’autodifesa. C’è una cosa che ripeto sempre: noi abbiamo perso il linguaggio necessario a mostrare la democrazia come un qualcosa di meraviglioso. Non la sappiamo più descrivere come tale e abbiamo lasciato che diventasse, come ho scritto più volte, “il regno dello sbadiglio”. La democrazia, così com’è rappresentata oggi, così com’è abitata dai politici più importanti, annoia clamorosamente. Quanto più movimentata, quanto più piena di novità è la politica trumpiana? Ma ci porta alla catastrofe e non ce ne rendiamo conto.
Manca quindi la capacità narrativa, mancano le parole, le metafore, le similitudini necessarie ad affrontare tutto questo. Per esempio: come mai non si è pensato di rispondere agli spropositi di Trump con degli spropositi ancora più spropositati, tali da far sembrare ridicole le cose che dice? Quindi aggiungere nella tempesta di annunci di Trump degli annunci che sembrano andare nella sua direzione, ma in realtà diventano una presa in giro.

 

 

La seconda parte dell'intervista uscirà lunedì mattina

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