12 montagne nebbiose, 7 tristi foreste: quando boschi e monti sono al centro della musica (in una delle canzoni più iconiche di sempre)
Mentre insieme al resto della Redazione de L’AltraMontagna mi stavo avventurando nella tragicomica ricerca di montagna, o quantomeno di natura, nei testi dei brani in gara a Sanremo 2025, ho avuto una specie di illuminazione. Mi sono tornati in mente i versi di una delle canzoni più studiate della storia della musica, in cui si parla per ben due volte di montagne e altrettante di foreste, ma anche di oceani e lupi selvaggi
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Alcuni giorni fa, mentre insieme al resto della Redazione de L’AltraMontagna mi stavo avventurando nella tragicomica ricerca di montagna, o quantomeno di natura, nei testi dei brani in gara a Sanremo 2025… ho avuto una specie di illuminazione.
Sarà stata la cocente delusione per la scarsissima presenza dei temi che andavo cercando (3 alberi e 2 edere su 29 canzoni in gara!); sarà stato il generale scarso livello dei testi (non tutti, per fortuna!); sarà stato, soprattutto, che pochi giorni prima avevo visto un certo film sul grande schermo…
Fatto sta che mentre leggevo ormai avvilito i testi dei Modà, di Elodie e compagnia cantante… zac! Un lampo. E dei versi che come uno schiaffo mi hanno risvegliato dal torpore, ronzando nella mia testa accompagnati da una chitarra e da una giovane voce nasale.
I versi di un premio Nobel per la letteratura: Robert Allen Zimmerman da Duluth, Minnesota. In arte, Bob Dylan.
Oh, where have you been, my blue-eyed son?
Oh, where have you been, my darling young one?
I've stumbled on the side of twelve misty mountains
I've walked and I've crawled on six crooked highways
I've stepped in the middle of seven sad forests
I've been out in front of a dozen dead oceans
I've been ten thousand miles in the mouth of a graveyard
And it's a hard, and it's a hard, it's a hard, and it's a hard
It's a hard rain's a-gonna fall
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Li avevo ascoltati da poco in “A Complete Unknown”, l’acclamato film di James Mangold tratto dal romanzo “Dylan Goes Electric!” di Elijah Wald, che racconta gli esordi del grande cantautore fino alla contestata “svolta elettrica” del Festival di Newport nel 1965, esattamente sessant’anni fa. Ma non avevo colto che nelle strofe di uno dei brani più studiati, analizzati, commentati, discussi e interpretati di Dylan, sulla quale sono stati scritti libri, articoli scientifici, saggi e riflessioni a non finire, si parla per ben due volte di montagne e altrettante di foreste.
“A Hard Rain’s A‐Gonna Fall” è il capolavoro assoluto di un Dylan giovanissimo, la prima canzone ad essere stata registrata negli studi della Columbia Records il 6 dicembre 1962 per il suo secondo album, “The Freewheelin' Bob Dylan”.
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Così la descrive Alessandro Carrera, poeta, traduttore e grande studioso di Dylan, nel saggio: “La pioggia alla fine del tempo. Bob Dylan tra simbolismo e modernismo”:
“Dove sei stato mio figlio diletto, canta Dylan, dove sei stato mio figlio adorato? Mi sono arrampicato sul fianco di dodici montagne coperte di nebbia, ho camminato e mi sono trascinato sui tornanti di sei autostrade, mi sono trovato nel fitto di sette tristi foreste, sono arrivato sulla riva di dodici oceani morti, mi sono inoltrato per diecimila miglia nella foce di un cimitero, ed è forte la pioggia che cadrà.
Ogni strofa ripete lo schema della prima, ma la variazione della domanda che qualcuno rivolge a un “figlio dagli occhi azzurri” (“blue-eyedson”), che nella tradizione delle ballate ha il senso di figlio più giovane, figlio innocente, figlio prediletto, determina la moltiplicazione delle risposte […].
Tornerò laggiù prima che la pioggia cominci a cadere, canta Dylan, mi spingerò fino al folto della foresta più densa e più nera, dove gli uomini sono in tanti e le mani le hanno vuote, dove proiettili di veleno gli intorbidano le acque, dove la casa in fondo alla valle confina con l’umida e sporca prigione, dove la faccia del boia è sempre ben nascosta, dove è orrida la fame e ci si scorda delle anime, dove il colore è nero e il numero è zero, e lo racconterò, ci ragionerò, lo dirò e lo respirerò, e lo rifletterò dalla montagna così che lo vedranno le anime tutte, poi starò ritto sull’oceano finché comincerò ad affondare, ma saprò bene la canzone prima di cominciare a cantarla, ed è una forte pioggia quella che cadrà”.
Strofe criptiche e potenti. Frasi che mescolano riferimenti biblici, numeri simbolici e immagini poetiche ispirate tanto da popolari ballate folk quanto dai versi di Rimbaud.
In molti hanno associato questa canzone, che sembra preludere all’apocalisse, con la crisi dei missili cubani del 1962 e la relativa paura collettiva per scoppio imminente di una terza guerra mondiale, caratterizzata da “dure piogge”, quelle radioattive. Ma fu lo stesso Dylan a negarlo, spiegando che l’aveva scritta alcuni mesi prima.
Spiega nel suo saggio Alessandro Carrera: “Il rischio dell’olocausto nucleare era ben presente tanto a Dylan quanto a chiunque altro, prima o dopo Cuba, ma Hard Rain’s A-Gonna Fall è soprattutto la prima riflessione dylaniana sul tempo come tempo della fine e sulla fine come fine del tempo. La fretta con la quale Dylan l’aveva scritta, la sensazione che doveva metterci dentro quante più cose possibile perché non avrebbe avuto tempo di scriverne altre, veniva più dalla sua percezione che il tempo è sempre già alla fine, che il tempo è sempre tempo della fine, piuttosto che da una minaccia specifica, che pure era nell’aria. È in A Hard Rain, insomma, che dobbiamo cercare la radice delle numerose dichiarazioni di guerra contro il tempo che Dylan ha disseminato nel corso della sua carriera”.
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Una canzone straordinaria che rappresenta insomma un viaggio nella vita e nel tempo che sta per finire (o che è già finito, o che non è neppure mai iniziato), tra montagne nebbiose e oceani morti, tristi foreste, lupi selvaggi e numerose altre immagini che come in un caleidoscopio vorticante ipnotizzano e destabilizzano.
“Quando l’Accademia di Svezia ha deciso di insignire Dylan del premio Nobel per la letteratura (mai ritirato dal cantautore n.d.r.) non intendeva sostenere che Dylan è un letterato o un poeta nel senso in cui lo è - per dire - Wallace Stevens”, racconta Carrera in un’intervista, “bensì che ha creato nuove espressioni poetiche, cioè ha creato del poetico più che delle poesie. Ha rivelato il poetico della canzone a chi non credeva che la canzone potesse essere un veicolo del poetico e l’ha arricchito di nuove possibilità espressive”.
Capite bene, a questo punto, quanto è stato difficile, dopo quel lampo, dopo quella illuminazione, tornare a scandagliare i testi di Sanremo.
Ho così cercato su Spotify la prima versione di “A Hard Rain’s A‐Gonna Fall” e l’ho fatta partire, distogliendo occhi e mente dai brani sanremesi. Ed è stata, devo dire, una godibilissima consolazione.
La montagna e gli elementi naturali, ho pensato, sedimentati come sono nel profondo dell’immaginario collettivo, si ritrovano proprio laddove le parole in musica hanno raggiunto le vette più alte. Vanno oltre la cronaca e i risultati scientifici, ben al di là dei temi che trattiamo ogni giorno su questo portale, dimostrando quanto sia forte il legame che ci stringe all’ambiente montano e al suo corollario simbolico.
In Dylan, come anche in De André, Guccini e in tanti altri poeti che hanno scelto di aggrappare le parole alle note, alberi, monti e boschi sono soggetto, racconto, legame, metafora, visione. Parte integrante della narrazione - senza tempo, come vorrebbe Dylan - delle nostre vite.
Foto Bob Dylan in copertina: Rowland Scherman - Wikimedia Commons
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Luigi Torreggiani è giornalista e dottore forestale. Collabora con la rivista “Sherwood - Foreste ed Alberi Oggi” e cura per Compagnia delle Foreste la comunicazione di progetti dedicati alla Gestione Forestale Sostenibile e alla conservazione della biodiversità forestale. Realizza e conduce podcast, video e documentari sui temi forestali. Ha pubblicato per CdF “Il mio bosco è di tutti”, un romanzo per ragazzi, e altre storie forestali illustrate per bambini. Per People ha pubblicato “Sottocorteccia. Un viaggio tra i boschi che cambiano”, scritto a quattro mani con Pietro Lacasella.