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Cultura

Incontra il suo ex maestro, fascista corresponsabile della sua deportazione: il racconto perfetto di Mario Rigoni Stern

È l’incontro fra due mondi inconciliabili in un testo scritto magistralmente e che si può ben considerare una summa delle qualità dello scrittore: "Un Natale del 1945"

di
Michele Santuliana
14 febbraio | 06:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Secondo alcuni è un racconto perfetto, uno dei più belli del Novecento italiano. Di certo, Un Natale del 1945 è uno dei migliori testi brevi di Mario Rigoni Stern. Stampato nel 1994 in poche copie come dono per gli amici, secondo una tradizione che Rigoni amava ripetere a Natale, il racconto fu pubblicato dieci anni dopo, nel 2004, in Aspettando l’alba e altri racconti, edito da Einaudi, e nel 2023 ha visto anche un adattamento cinematografico, il primo di uno racconto di Rigoni Stern, per la regia di Fabio Rosi. Il testo si può anche ascoltare per intero in una lettura di Giuseppe Mendicino.

L’incipit già rivela l’insieme di dolore e poesia che caratterizza tutto il racconto, il quale pone al centro il tema, poco presente nella nostra letteratura, del reinserimento dei sopravvissuti dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale: «Più che la neve che doveva calpestare durante il giorno, era il freddo della notte che gli rendeva duro quel tempo. Partiva quando il chiarore dell’alba compariva sulle rocce dell’alta montagna dal bel nome che gli stava di fronte: l’ondata del sole toccava poi via via tutte le montagne intorno. Restavano, però, sempre in ombra alcuni versanti e il fondovalle, e i boschi in basso dove il sole sarebbe arrivato solo a marzo. Lì la neve rimaneva sempre appesa alle rocce e agli alberi dando sensazione di freddo fossile».

 

Siamo nel dicembre 1945 e il protagonista, il cui nome non viene rivelato, è un giovane che con la guerra ha perduto tutto. Segnato dal trauma, privato dei legami più cari, ogni mattina sale sul monte Verena, l’«alta montagna dal bel nome», per sradicare i ceppi dei larici secolari che l’anno precedente la Todt, l’organizzazione paramilitare tedesca che gestiva i lavori di fortificazione e manutenzione nei territori occupati, ha tagliato per riparare i ponti bombardati della pianura. Lo scopo del giovane è portare a valle ciò che resta di quegli alberi: col ricavato della vendita non penserà a ricostruirsi un vita nella sua terra ma si pagherà il viaggio per emigrare.


Partigiani della "7 Comuni" sul Poldrecche - archivio Studi Storici Anapoli e Urbani "Pat"

Intorno tutto è neve e silenzio, in un paesaggio devastato che non può non evocare, in un lettore attento di oggi, la desolazione portata in quella, come in molte altre valli alpine, dalla tempesta Vaia nel novembre 2018. Qui lo sconvolgimento è però opera diretta dell’uomo, che ha infierito tanto sulla natura quanto sulle persone, distruggendo, uccidendo, bruciando e deportando. La solitudine del protagonista, altro tema caro a Rigoni, è totale, una solitudine che è isolamento subìto ma anche cercato, un sentimento profondo che si lega ai traumi vissuti ed è, al contempo, una tregua prima di un avvenire ignoto

 

Ogni mattina il giovane sale dunque sul Verena dal proprio rifugio di fortuna, ricavato fra le rovine dell’osteria “Antico Termine”, bruciata dai tedeschi, luogo che Rigoni amava, che ha citato spesso nelle sue opere e in cui ha ambientato più di un racconto. Chiamata così perché costruita in prossimità dell’antico confine fra l’Impero e la Federazione dei Sette Comuni e poi, dal 1866, di quello fra il Regno d’Italia e le terre di Francesco Giuseppe, è oggi punto di sosta per chi percorre la statale 349 della Val d'Assa, che dal Veneto conduce al Trentino attraverso il Passo di Vezzena.


L'osteria "Antico termine" nel giugno 1916 - K.u.k. Kriegspressequartier, Lichtbildstelle - Wien

Il lavoro è duro, ma il giovane lo porta avanti con tenacia: ha contratto un debito per avere di che vivere in quei duri mesi invernali e lo onorerà. Con quanto gli resterà potrà comprare il biglietto per emigrare in Australia. È amaro, Rigoni, nel rappresentare il futuro del protagonista, di quell’amarezza che segna la sua opera e tocca alcuni dei suoi punti più forti in Storia di Tönle. È l’indignazione per i soprusi sulla povera gente, è il grido degli ultimi, travolti dalle scelte di pochi che, anziché guidare le nazioni, hanno scatenato l’odio e la guerra, è l’amarezza per il destino beffardo di chi ha lottato per la Libertà, pagando il prezzo più alto, e si ritrova, privato di tutto, in un mondo in cui i fascisti di ieri sono tornati al loro posto. Un mondo in cui sente di non poter più stare.

 

L’indignazione del protagonista è la stessa dell’autore, la cui storia, simile per diversi aspetti a quella del primo, appare sottesa, come in filigrana. In pochi tratti, con parole misurate e precise, il narratore rievoca la storia dell’anonimo paesano: partigiano dopo l’8 settembre, catturato e condannato a morte, poi deportato in Germania; ora, infine, solitario montanaro in attesa di abbandonare, probabilmente per sempre, la sua terra natia.


Mario Rigoni Stern fotografato da Patrice Dyerval all'interno dell'osteria "Antico termine" il 24 maggio 2004

Poi il colpo di scena. Il giorno di Natale il giovane riceve una visita: è il suo maestro di un tempo, in seguito milite della brigata nera e corresponsabile della sua deportazione. È lì con spumante e panettone, per chiedere scusa. Entra nel rifugio nonostante l'iniziale contrarietà del protagonista, che mentre l’altro parla si siede in silenzio a fissare il fuoco. Osservando quel fuoco rivede l’orrore visto e patito: «Le donne e i ragazzi uccisi dai soldati tedeschi, i compagni morti di freddo sulle montagne dell’Albania, gli ebrei di Leopoli. Il Lager».

 

L’altro continua a parlare: cerca scuse, invoca l’obbedienza agli ordini a giustificazione delle sue scelte passate, propone una riconciliazione, chiede perdono. Il giovane continua a tacere, ma la risposta si palesa presto dentro di lui: «Non poteva perdonarlo, no. Non per quanto lo riguardava direttamente, ma per gli altri che non avevano nemmeno più un fuoco da guardare». L’inevitabile conclusione non fa che ribadire l’impossibilità di compromessi. Anzitutto con la propria coscienza. Ed è questa una lezione di dignità e di rigore etico che affiora in ogni pagina di Rigoni Stern.

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