Dipinse un quadro da molti considerato "scomodo", oggi icona del Novecento. La breve vita dell'artista Pellizza da Volpedo
"Non è la verità che io debbo rappresentare nel quadro bensì la verità ideale". L’occasione per approfondire la figura di questo grande artista la offre il film di Francesco Fei: "Pellizza, il pittore da Volpedo", con voce narrante di Fabrizio Bentivoglio. Le immagini permetteranno di percorrere i luoghi che ispirarono la sua pittura, completandone il ritratto. Verrà proiettato martedì 4 e mercoledì 5 febbraio
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Può mai un artista essere oscurato dall’opera che più lo ha impegnato e che, in anni successivi, ne ha illuminato la figura, assegnandogli una notorietà che mai gli verrà meno? Sembra un controsenso, un ossimoro formulato per attirare l’attenzione del lettore: in parte è così, in parte però no. Chiedere a bruciapelo il titolo di un quadro di Géricault, che non sia La zattera della Medusa, metterebbe in imbarazzo non pochi appassionati d’arte. Dipinto in otto mesi, tra il 1818 e il 1819, grande cinque metri per sette e acquistato con colpevole ritardo dallo stato francese dopo la precoce morte del pittore, avvenuta nel 1824 a soli trentatré anni, quell’opera, per molti, non è di Géricault, ma è come se fosse Géricault. Niente prima e niente dopo.
Quarantaquattro anni dalla scomparsa del pittore francese, in provincia di Alessandria, a Volpedo, paese non solcato dalla Senna ma dal torrente Curone, nasce uno tra i maggiori artisti del nostro Ottocento: Giuseppe Pellizza. Un contesto culturale totalmente differente: Volpedo non è lontana da Milano, da Torino, da Genova. La “macchia” toscana, la pennellata fluida e ben impostata del Verismo, i toni caldi e accoglienti del Romanticismo: queste solitamente erano le suggestioni artistiche che un giovane trovava già composte all’interno della sua tavolozza. Lo stesso valse per Pellizza (il nome del paese nella firma iniziò a inserirlo nel 1892).
Egli, però, dai primi anni Novanta, superata la fase di vicinanza con i Macchiaioli, imboccò la strada del Divisionismo, trasformando la periferia in laboratorio, la marginalità in virtù. Con lui: Gaetano Previati, che ne intuì e anticipò sulla tela le possibilità espressive; Vittore Grubicy, che ne elaborò l’aspetto teorico; Angelo Morbelli e Giovanni Segantini, osservati alla prima Triennale di Brera del 1891; non ultimi, Emilio Longoni e Plinio Nomellini. Esponenti di primissimo piano, impegnati a rafforzare un fenomeno artistico solo italiano, capace di congiungere il neoimpressionismo alle micce che di lì a poco, avanzando veloci, infiammeranno la stagione futurista. Ciò accadde “a sua insaputa”, se così si può dire, considerando il distaccato interesse che provò nei confronti di Balla, Boccioni e Severini, incontrati durante un viaggio a Roma, nel 1906.
In Pellizza da Volpedo non vi sono ardori sbeffeggianti, meno che meno il desiderio di uccidere il “chiaro di luna”. Se pensa al ruolo e alla figura dell’artista, egli dice: “Gli è necessario il contatto diretto, e continuato con la natura (…). Viver in essa, di essa, per essa onde assimilarsela quanto può e così porsi in grado di tradurla facendone risaltare quei caratteri per i quali si distingue”. Per lui era determinante scoprire l’esistente, rafforzandone il valore simbolico e poetico: partecipare ed essere parte del soggetto.
Ha viaggiato e visto: pensa ai pittori della scuola di Barbizon, ad esempio, tuttavia si differenzia da loro per non affidare alla natura un ruolo idilliaco e lontano dalla società. Come per Courbet, inverno e primavera non sono solo stagioni, ma stati d’animo, necessità, speranze. Di conseguenza, anche la persona, in questa sua visione del mondo, è natura. “Non un’arte per l’arte, ma un’arte per l’umanità”, lo pensa e lo dice avvertendo che: “Non è la verità che io debbo rappresentare nel quadro bensì la verità ideale”.
Eccoci arrivati al Quarto Stato, icona chiamata ad aprire il Novecento in tutti i libri di arte e di storia, per la sua valenza simbolica, legata ai diritti dei ceti meno abbienti, in prevalenza costituiti da piccoli artigiani, operai e contadini. Imponente nelle dimensioni (5.45x2.93), essa, dipinta tra il 1898 e il 1901, è il punto d’arrivo dopo un periodo di gestazione durato circa dieci anni: anni in cui egli non cambiò solo l’impostazione del soggetto, rimodulando la scena, ma maturò il proprio stile, fornendo al dipinto un efficace impatto scenico e, al contempo, una compattezza timbrica armonizzante, come accadrà in altri dipinti successivi, raffiguranti il paesaggio.
Associare Pellizza da Volpedo al Quarto Stato è oggi inevitabile: il faro non può che essere puntato al centro di questa tela, trascurando quello che ha fatto prima e dopo. Un capolavoro che, alla sua prima uscita pubblica, alla Quadriennale di Torino nel 1902, venne accolto con grande freddezza e, da subito, apparso scomodo. Non diversamente andarono le cose due anni dopo alla Quadriennale di Roma. Chi lo conosceva lo aveva messo in guardia, lui stesso ne era consapevole: “Quando pensiero e forma si fusero nella mia convinzione nulla mi trattenne, non le rampogne della famiglia, non i consigli degli amici, non le maldicenze dei meno benevoli e altre maggiori difficoltà”. Nel 1906 fu anche reputato un quadro triste, inadatto per la mostra organizzata a conclusione dei lavori del traforo del Sempione. Proprio come accadde con Géricault, anche quest’opera fu acquistata con colpevole ritardo nel 1920 dagli eredi, per cinquantamila lire, grazie a una sottoscrizione civica. Collocato in una sala del Castello Sforzesco, alla fine del Fascismo fu appeso a Palazzo Marino e, successivamente, inserito tra le opere divisioniste alla Galleria d’Arte Moderna di via Palestro. Dal 2010 venne spostata all’ingresso del Museo del Novecento, sempre a Milano, per poi rientrare definitivamente alla Galleria d’arte Moderna nel luglio del 2022.
Quante cose ci sarebbero da dire, quanti aneddoti e curiosità da raccontare: le tre lire al giorno pagate agli abitanti del paese per posare. Uomini di cui si conoscono i nomi, la professione. Con le capacità di un regista, Pellizza predispose la scena, collocando al centro, in primo piano, con la giacca sulle spalle e il passo sicuro, il farmacista (Giovanni Gatti) scelto per la sua corporatura vigorosa, a cui l’artista adattò il volto di Giovanni Zarri, un muratore; sulla sinistra, più avanti con gli anni, Giacomo Bidone, falegname. Alla loro destra, con il braccio un bambino, Teresa, la moglie dell’artista, con lo sguardo preoccupato e ritratta come in un film neorealista. Tutte le età dell’uomo sono rappresentate. Colpisce come non vi sia rabbia in questo corteo, ma grande compostezza: “La coscienza della loro forza non li spinge all’imprecazione, oramai essi vincono”.
Seguiranno opere, più contenute nella dimensione, ma non meno, se non talvolta superiori nella misura emotiva. Sul fienile del 1893 è una di queste: raffigurando il momento toccante dell’estrema unzione, somministrata dal sacerdote a un lavoratore, Pellizza qui pone tutte le figure in controluce, conferendo all’ombra il compito di raccogliere il dolore. Sullo sfondo, soleggiate, si scorgono le case del paese (opera esposta sino al 6 aprile al Castello di Novara, all’interno della mostra intitolata Paesaggi – Realtà Impressione Simbolo – Da Migliara a Pellizza da Volpedo).
Idillio primaverile (1896-1901) indica un momento di festa; Lo specchio della vita (1898) descrive il sereno e allineato transitare delle pecore sui campi (“e ciò che l’una fa e l’altre fanno”); “Panni al sole” del 1904, opera tra le più luminose, il cui chiarore estivo pare provenire da un’altra regione.
Capolavoro assoluto è Sole nascente, del 1904, ora alla Galleria Nazionale d’Arte moderna di Roma. Aurora Scotti, studiosa attenta di Pelizza da Volpedo, descrivendo questo dipinto, ricorda che “L’intenso desiderio di tradurre sulla tela gli spettacoli più emozionanti della natura lo spingeva a salire, ancora in piena notte, le colline circostanti e raggiungere oltre Monleale la località Cenelli, per attendere, pronto al suo cavalletto, l’apparire sfolgorante del sole”. C’è molto Segantini in questa descrizione e, in effetti, più di un aspetto ne avvicina i risultati. A tenerli separati vi è l’indole: l’approccio eroico dell’uno, è assente nell’altro: Giuseppe Pellizza, lasciandosi avvolgere da quei raggi filamentosi, come in una tela di ragno, trova modo di rinnovare le proprie speranze, ravvivando in sé una luce interiore, la medesima che ne muove l’arte. Una luce per lui sin troppo intensa, abbagliante, incapace di restituire nel dettaglio le forme, però indispensabile per svelare aspetti interiori ai quali è complicato dare risposta. Un’atmosfera che, per effetto di contrasto, lontano dal cavalletto rendeva ancora più buie le ore della notte.
Tanto è vero che, quegli stessi colli, nel 1907, si trasformeranno in impenetrabile barriera esistenziale quando, a pochi giorni dal parto, moriranno sia il figlio Pietro che, subito dopo, la moglie Teresa, facendolo precipitare nello sconforto più totale. Il 14 giugno di quello stesso anno, trentanovenne, si toglierà la vita all’interno del suo studio. L’occasione per approfondire la figura di questo grande artista che, come altri, meriterebbe una più adeguata collocazione internazionale, la offre ora il film di Francesco Fei: Pellizza, il pittore da Volpedo, con voce narrante di Fabrizio Bentivoglio. Le immagini permetteranno di percorrere i luoghi che ispirarono la sua pittura, completandone il ritratto. Verrà proiettato martedì 4 e mercoledì 5 febbraio.