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Cultura

Il libro che mi ha aiutato a comprendere il contesto emozionale del lockdown. Un antidoto per non lasciare "dietro di sé un pallido ricordo destinato presto a svanire"

Dino Buzzati - di cui oggi ricorre l'anniversario della morte - con grande sensibilità aveva compreso i pericoli insiti nell'abitudine alla monotonia: la ripetitività è indubbiamente comoda, perché non richiede particolari sforzi intellettivi, ma rischia di privare le nostre esistenze di nuovi entusiasmi

di
Pietro Lacasella
28 gennaio | 18:00

Quello della pandemia di Covid-19 è un ricordo particolare: da un lato forte, pungente, vicino, ma dall’altro separato, quasi confinato in uno spazio temporale indipendente rispetto al normale flusso della vita. È come se non lo volessimo evocare più, perché il riverbero di quei giorni per diversi motivi fa ancora male: a livello affettivo ed economico, ma anche e soprattutto relazionale.

 

Una dinamica tanto pervasiva da provocare un’avversione collettiva del ricordo. Nonostante l’inerzia della pandemia non sia ancora esaurita da un punto di vista socioeconomico, vogliamo dimenticare. Una pietra sopra. Basta. Punto, a capo, inizia un nuovo capitolo.

 

Magari fosse così semplice cancellare un frammento di memoria non gradito. La carne che lo avvolge non brucia più come un tempo, è vero, ma quel frammento è ormai parte di noi. Allora, ogni tanto vale la pena tornare ad esaminarlo, superando il timore che i muscoli tornino a pulsare. Anche solo brevemente, come in questo caso; anche solo per esplorare una delle sue numerose facce.

 

L’anniversario della morte dello scrittore Dino Buzzati (28 gennaio 1972) mi accompagna quindi tra le pagine del libro che forse più mi ha aiutato a comprendere il contesto emozionale del lockdown: Il deserto dei Tartari.


Che il libro riuscisse a cogliere l’atmosfera di quelle giornate, così simili in una ripetitività divenuta familiare, l’ho intuito prima ancora che la storia iniziasse: tra una premessa biografica e l’attacco del romanzo, l’editore aveva infatti inserito un’intervista dove l’autore spiegava l’origine della storia:

 

“Probabilmente tutto è nato nella redazione del Corriere della Sera. Dal 1933 al 1939 ci ho lavorato tutte le notti, ed era un lavoro piuttosto pesante e monotono, e i mesi passavano, passavano gli anni e io mi chiedevo se sarebbe andata avanti sempre così, se le speranze, i sogni inevitabili quando si è giovani, si sarebbero atrofizzati a poco a poco, se la grande occasione sarebbe venuta o no, e intorno a me vedevo uomini, alcuni della mia età, altri molto più anziani, i quali andavano, andavano, trasportati dallo stesso lento fiume e mi domandavo se anch’io un giorno mi sarei trovato nelle stesse condizioni dei colleghi dai capelli bianchi già alla vigilia della pensione, colleghi oscuri che non avrebbero lasciato niente dietro di sé che un pallido ricordo destinato presto a svanire. Chiaro che la stessa situazione si presenta in tutti i generi di lavoro, in tutte le carriere. Era insomma un tema abbastanza universale, una macchina nei cui ingranaggi ero perso io, ma che macinava anche la stragrande maggioranza dei miei simili”.

 

Un'atmosfera simile fluttuava tra le mura di casa a inizio 2020, quando il tempo non di rado scorreva senza riuscire a essere del tutto riempito.

Sentivamo l'esigenza di trovare un modo per colmare le lacune provocate dall'inazione. Tutto, in quella sospensione, poteva attirare: anche il più flebile dei suoni, anche una particolare sfumatura nel cielo, anche il filo di un sentimento reciso anni prima. 

 

L'attenzione per i dettagli era tuttavia uno degli aspetti meno futili e banali. Quello invece più subdolo e, per certi versi, pericoloso, si incontrava nell'abitudine alla monotonia. Parafrasando Buzzati, i giorni passavano, le settimane passavano e in molti si chiedevamo se sarebbe andata avanti sempre così, se i sogni si sarebbero atrofizzati a poco a poco. 

 

Tuttavia, come Il deserto dei Tartari e il suo protagonista Giovanni Drogo evidenziano con magnifica sensibilità psicologica, sul torpore fisico-culturale è facile adagiarsi. La ripetitività è indubbiamente comoda, perché non richiede particolari sforzi intellettivi. 

 

Per questo è importante fuggire dalle paludi della nostra esistenza: il rischio è quello di lasciare "dietro di sé un pallido ricordo destinato presto a svanire".

l'autore
Pietro Lacasella

Antropologo e scrittore interessato ai contesti alpini. Nel 2020 inizia a curare il blog Alto-Rilievo / voci di montagna. Ha lavorato per il Centro Internazionale Civiltà dell’Acqua. Ha riorganizzato e curato i contenuti della testata online del Club alpino italiano Lo Scarpone. Oggi collabora con Il Dolomiti curando il quotidiano online L’AltraMontagna. Ha pubblicato Sottocorteccia, un saggio-diario sull’emergenza bostrico scritto a quattro mani con Luigi Torreggiani. Ha curato Scivolone olimpico, un volume sulla vicenda della pista da bob in programma di realizzazione a Cortina.

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