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Cultura

"Invece di tagliare alberi tagliatevi i coglion*". Da una scritta su un cartello di cantiere, una riflessione sulla percezione del lavoro in bosco

Una scritta offensiva verso il lavoro di una squadra di boscaioli è recentemente apparsa sul cartello di un cantiere forestale nelle Prealpi venete. Un'occasione per riflettere sulla percezione diffusa (e spesso distorta) legata alle attività selvicolturali e sulle cause che la determinano

di
Luigi Torreggiani
28 gennaio | 06:00

"Invece di tagliare alberi tagliatevi i coglioni e quelli di chi vi autorizza".

 

Questa scritta, in pennarello nero, è recentemente apparsa sul cartello di un cantiere nelle Prealpi venete. Un cantiere caratterizzato dalla costruzione di una strada forestale e dal taglio di utilizzazione di un bosco ceduo, tutto regolarmente autorizzato a norma di legge. A trovarla, di mattina presto all’arrivo sul posto di lavoro, è stata la squadra di boscaioli guidata da Omar Rech, un giovane imprenditore boschivo.

 

L’immagine del cartello imbrattato dalla scritta mi è stata inviata dal Prof. Raffaele Cavalli dell’Università di Padova, uno dei massimi esperti di cantieristica forestale in Italia, insieme ad un messaggio laconico che mal celava un misto di ironia, tristezza e rassegnazione: "Questa ti manca". Già, perché Cavalli sa bene che insieme ai colleghi della rivista Sherwood da anni colleziono vignette, titoli di giornale, video, post e altre evidenze che mostrano quanto oggi la figura del boscaiolo sia spesso giudicata in modo assai negativo, purtroppo fregandosene anche della dignità umana.


Due vignette macabre legate al taglio di alberi diventate molto virali sui social.

Ho conosciuto Omar anni fa, durante le registrazioni di un podcast sulla tempesta Vaia, e la sua storia mi ha colpito da subito. "Non volevo sprecare gli anni della mia vita in fabbrica, così un giorno ho deciso di mollare tutto e iniziare a lavorare in bosco, per seguire quella passione che mi accompagnava fin da ragazzino. A volte è dura, ma lavorare in questi ambienti mi fa stare bene", così mi aveva raccontato in mezzo a decine di piante seccate in piedi dal bostrico. Lui e la sua squadra sono stati tra i primi a intervenire per liberare le strade nella lunga notte di Vaia e per anni hanno lavorato al ripristino delle aree colpite dal vento prima e dall’insetto poi. Un servizio enorme, svolto per una società non sempre preparata culturalmente a coglierne l’importanza. Durante quell’intervista ho percepito la passione autentica che ancora può muovere un giovane verso questo lavoro così difficile, pericoloso e che di certo non rende milionari. Per questo, quando mesi dopo ho scritto una storia per bambini dedicata alla selvicoltura, ho scelto di chiamare Omar uno dei protagonisti.

 

Scrivo tutto ciò per far comprendere quanto quella scritta - invece di tagliare alberi tagliatevi i coglioni - mi abbia fatto particolarmente male, anche se non è certo il primo episodio di questo tipo a cui ho assistito in questi anni. Mesi fa, ad esempio, il titolare di un’impresa boschiva toscana mi ha raccontato di aver ricevuto, da parte di un gruppo di escursionisti che si trovavano a camminare di fianco al suo cantiere, una serie di insulti urlati tra cui, addirittura, "assassini". Non era la prima volta.

 

Non si tratta di un problema solo italiano e non riguarda soltanto la categoria dei boscaioli. Una recente ricerca, svolta in Francia dall’Ufficio Nazionale delle Foreste, ha mostrato dati sconvolgenti. Tra i selvicoltori attivi nelle foreste pubbliche francesi (da più parti considerate un esempio di buona gestione), l'88% ha affermato di aver assistito o di essere stato vittima di un conflitto nell'esercizio delle proprie funzioni, o addirittura al di fuori del proprio contesto lavorativo; il 45% ha subito rimproveri verbali come: "Mi vergognerei di fare il tuo lavoro"; il 22% ha subito insulti verbali o scritti, come: "Assassini, criminali, buoni a nulla, morite, saccheggiatori"; Il 19% ha assistito a danni alle attrezzature professionali e ai pannelli informativi dei cantieri e addirittura il 10% è stato aggredito fisicamente.


Una macchina forestale in Francia imbrattata con scritte offensive (fonte: ONF).

Tutto questo, perché? La risposta è al tempo stesso semplice ed estremamente complessa.

 

È semplice perché, in ultima analisi, il "problema" di fondo da cui nasce questa percezione negativa è uno e uno soltanto: il taglio dell’albero. In una società sempre più distante sia fisicamente che culturalmente dai lavori della terra, la natura si va via via riempiendo di nuovi significati e l’albero diventa spesso il simbolo, il totem, di una diffusa sacralizzazione del selvatico in atto ormai da decenni. Poco importa poi se le persone che definiscono assassino un boscaiolo o che invitano la squadra di Omar a tagliarsi gli attributi si scaldano con della buona legna di faggio, se il loro tetto è sorretto da travi d’abete, se il tavolo su cui mangiano ogni giorno è di noce o ciliegio.

 

La sacrosanta necessità di conservare habitat e specie a rischio in determinate aree è spesso confusa con una vaga idea di protezione integrale di tutto ciò che viene percepito come "naturale", anche se, quasi sempre nei nostri ambienti, ciò che percepiamo come "selvaggio" o "incontaminato" deriva da millenni di interazione tra umanità ed ecosistemi. I giusti sentimenti di indignazione verso i problemi di deforestazione che affliggono aree come l’Amazzonia vengono trasportati senza filtri dal Sud America alle nostre montagne, dove invece le aree forestali aumentano e le attività selvicolturali sono normate da numerose leggi e regolamenti europei, nazionali, regionali e dai controlli dalle autorità preposte. 

 

Ma la questione è anche complessa, perché le origini di questo sentimento diffuso sono variegate e multiformi. Se la distanza fisica dalle "cose della terra" deriva da stravolgimenti socio-economici difficili da governare, quella culturale è un problema su cui tutti abbiamo responsabilità.

 

A scuola, ad esempio, si parla poco e male di gestione forestale sostenibile. L’educazione ambientale, svolta anche dagli enti pubblici, è quasi sempre mirata a far conoscere l’importanza di piante e animali (cosa buona e giusta) ma quasi mai i prodotti del bosco che usiamo quotidianamente e le modalità di una loro "coltivazione" e raccolta rispettosa. Le associazioni ambientaliste, per fortuna non tutte, spesso scelgono un linguaggio forte e diretto, con slogan e immagini d’impatto create apposta per colpire alla pancia.

 

E poi c’è il discorso pubblico, sempre più spesso dominato da scrittori, giornalisti, attori, musicisti, comici, influencer e altri personaggi pubblici che non perdono occasione per parlare di natura (tema oggi che piace, che appassiona e che di conseguenza "crea ingaggio" e fa vendere) in modo edulcorato e banalizzante, escludendo la complessità di una relazione necessaria e imprescindibile, quella tra noi e le risorse naturali. Talvolta, a soffiare sul fuoco di questa pericolosa semplificazione sono scienziati in cerca di facile notorietà o politici a caccia di una nuova nicchia di voti, soggetti che grazie al peso delle loro posizioni pubbliche sono in grado di influenzare enormemente una certa percezione che va rapidamente diffondendosi nella società.

 

La scritta sul cartello di Omar, insomma, non è solo l'opera di un maleducato ignorante dotato di pennarello, ma la conseguenza di un enorme problema culturale che occorrerebbe affrontare al più presto. Anche il settore forestale dovrebbe fare di più: sapersi raccontare meglio, magari proprio a partire dai cartelli di cantiere, che potrebbero essere maggiormente empatici e comunicativi (anche se in Francia, a dire il vero, pure questi vengono spesso imbrattati); e poi mettersi maggiormente in gioco, intavolando un dialogo costruttivo con chi ha sensibilità diverse ed evitando di nascondere i problemi come polvere sotto al tappeto.


Un cartello divulgativo che spiega un intervento di selvicoltura naturalistica imbrattato in Francia (fonte: ONF).

Nessuno chiede la “mitizzazione” dei boscaioli, né quella della selvicoltura. Semplicemente, occorrerebbe un pizzico di onestà intellettuale in più e uno sforzo di complessità quando viene descritta la relazione tra umani e bosco, a maggior ragione nell’orizzonte della transizione ecologica e di fronte alle necessità di adattamento alla crisi climatica.

 

E poi, il necessario rispetto umano verso persone che lavorano, con passione e riguardo delle regole, in un’attività più che legittima che, anche se facciamo sempre più fatica a dircelo, è necessaria, come tante altre, alle nostre vite. Un’attività, quella dei boscaioli, che se realizzata con responsabilità ci permette di godere di un territorio manutenuto, di numerosi servizi ecosistemici e di una materia prima rinnovabile che, per fortuna, è ovunque attorno a noi.

 

Impariamo a farci caso e a pensarci su, prima di "imbracciare i pennarelli".

 

 

Ringrazio Omar Rech, che per pudore non voleva rendere pubblico quanto accaduto, ma che ha lasciato che lo facessi per sensibilizzare su una situazione che purtroppo coinvolge sempre più la sua categoria professionale.  

l'autore
Luigi Torreggiani

Luigi Torreggiani è giornalista e dottore forestale. Collabora con la rivista “Sherwood - Foreste ed Alberi Oggi” e cura per Compagnia delle Foreste la comunicazione di progetti dedicati alla Gestione Forestale Sostenibile e alla conservazione della biodiversità forestale. Realizza e conduce podcast, video e documentari sui temi forestali. Ha pubblicato per CdF “Il mio bosco è di tutti”, un romanzo per ragazzi, e altre storie forestali illustrate per bambini. Per People ha pubblicato “Sottocorteccia. Un viaggio tra i boschi che cambiano”, scritto a quattro mani con Pietro Lacasella. 

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