"Per vivere la montagna serve soprattutto avere a che fare con le persone, anche scontrandoti con loro". Franco Faggiani e le piccole storie che salvano le terre alte
Le Alpi e gli Appennini, la storia di chi va e di chi resta e la capacità di adattarsi, lì dove tutto può cambiare in un attimo: "Basta un filo di vento". Intervista allo scrittore Franco Faggiani, che ci racconta cosa significa scrivere oggi di montagna
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di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Basta un filo di vento perché tutto cambi, in montagna come nella vita, a qualsiasi altitudine. Non è un caso che, da grande conoscitore di terre alte, boschi e borgate, Franco Faggiani abbia scelto proprio questo, Basta un filo di vento, come titolo del suo ultimo romanzo (Fazi, 2024). Racconta la storia della Conventina, una grande azienda agricola sulle colline dell’Oltrepò pavese, e delle persone che la abitano e che, al contrario di quanto avviene di solito nelle aree interne del nostro Paese, da lì non hanno alcuna intenzione di andarsene.
Romano di origini, milanese di adozione, giornalista nella prima parte della sua vita ed esperto camminatore, Faggiani è un narratore prolifico di romanzi, a partire dal suo primo e più famoso La manutenzione dei sensi, ma anche di saggi e guide, come la raccolta di profili Gente di montagna. È autore del volume del Sentiero d’Italia del Club Alpino Italiano dedicato al Piemonte occidentale ed è ormai considerato uno degli “scrittori di montagna” italiani più affermati: una definizione che considera un po’ stretta, pur essendo i rilievi grandi protagonisti di ogni sua storia. In questa intervista ci racconta perché negli ultimi anni il suo sguardo di narratore si sia spostato dalle Alpi agli Appennini, cosa significa oggi scrivere di montagna e perché le terre alte si possono salvare anche a partire dalle piccole storie.
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Con quest’ultimo romanzo è sceso un po’ di quota rispetto ad altri suoi libri che hanno avuto come protagoniste le Alpi. Cosa c’è, del paesaggio e delle comunità dell’Appennino, che ha attirato il suo sguardo di scrittore?
C’è innanzitutto il paesaggio naturale che, dopo aver frequentato per tanti anni le Alpi, ho scoperto essere qui ancora genuino, molto simile a quello della mia adolescenza trascorsa nella casa di campagna dei miei nonni, sulle colline marchigiane. A differenza delle Alpi, che in alcuni posti assomigliano sempre più a un luna park, qui, forse anche per colpa dell'abbandono della montagna, la natura si è riappropriata di quello che era suo. È una cosa che mi affascina.
È anche un segno tangibile dello spopolamento che vivono le aree interne.
È così. Infatti chi ci abita non la vede in modo tanto affascinante: i boschi che hanno preso il posto dei pascoli sono una complicazione per gli allevatori, per esempio. Una qualche forma di ritorno in Appennino oggi c’è, ma non è sufficiente a rivitalizzarne la montagna.
In effetti, di questi tempi la cronaca racconta le aree interne appenniniche principalmente in termini di spopolamento, servizi che mancano, paesi che muoiono. Invece, tutti i protagonisti di “Basta un filo di vento” mostrano un radicamento molto forte alla propria comunità, che si rivela molto viva: c’è chi va e poi torna dopo molti anni, chi va e viene in una sorta di contemporaneo abitare multilocale, e chi non se ne va mai. Come mai questa scelta narrativa?
Proprio per dare di nuovo senso e valore all’idea di comunità, allo stare insieme, al sostenersi quando c'è bisogno. E poi perché, come sempre nei miei romanzi, anche questa storia prende spunto da una vicenda reale, ambientata in un contesto molto simile, con una differenza: la vera Conventina si trova nelle Marche, non nell’Oltrepò pavese. È la storia di una grande azienda agricola che appartiene e nella quale lavorano da quattro generazioni le stesse famiglie, che hanno sempre vissuto lì e hanno un attaccamento molto forte al territorio e alla comunità. Anche chi, a un certo punto, cerca di tagliare quelle radici, finisce per tornare. Capita a molti, e non solo in montagna o nei paesi, di passare la vita in tanti luoghi diversi e poi, a un certo punto, di sentire il richiamo della terra in cui si è nati. E non è tanto il paesaggio, ma l’essersi sentiti parte di una comunità a esercitare quel richiamo: più che al territorio, torniamo alle persone.
Il romanzo si apre con la richiesta di acquisto della Conventina perché sia trasformata in un resort di lusso. Non anticipiamo come andrà, ma è un dato di fatto che oggi il turismo venga spesso presentato come l’unica soluzione per arginare lo spopolamento dei paesi. Lei cosa ne pensa?
Ci vuole molta saggezza da parte delle amministrazioni locali. Leggo continuamente che si vogliono fare impianti di risalita dove ormai non nevica più. Serve gestire il territorio in maniera diversa e fare scelte oculate. Porto sempre l’esempio della Valle Maira, dove ho ambientato un altro dei miei romanzi, “L'inventario delle nuvole”. Ecco, la Valle Maira è oggi un luogo affollato di turismo consapevole, che è riuscito a rimanere pressoché intatto dal punto di vista naturale grazie alla lungimiranza dei valligiani che, tra gli anni Sessanta e Settanta, non hanno voluto la costruzione degli impianti di risalita: qui non ci sono piloni, cavi di acciaio, cemento, piste, e neanche albergoni e seconde case. Non c’è stata l’invasione di quell’edilizia che deturpa il territorio e la vita degli abitanti e dopo pochi anni è già morta. È stata una decisione che oggi premia quel territorio, che vanta un flusso turistico importante, ma fatto di persone che sanno che nei rifugi non troveranno lo spritz o la pasta con le vongole e apprezzano quello che c’è. Un turismo educato, che rispetta la natura e si basa sulla piccola accoglienza locale.
Oggi che la montagna sembra essere diventata di moda, anche la letteratura di alta quota vive un buon successo di pubblico. Esattamente come per la frequentazione delle terre alte, però, non c’è il rischio di cadere, nel loro racconto, in un approccio che le banalizza? Come si evita una narrazione stereotipata della montagna?
In effetti, di recente ho letto diversi libri, anche scritti molto bene, che mi sono parsi di chiara imitazione “cognettiana”: la vita in rifugio, la montagna che ti segna e ti cambia. Io credo che si possa sopperire vivendo direttamente le esperienze che si raccontano. Io vado in montagna e, soprattutto, parlo con le persone, che mi raccontano le loro storie. Per vivere la montagna non basta occupare una casa, ma serve imparare a conoscere il territorio, nei suoi aspetti positivi e negativi, e soprattutto avere a che fare con le persone, anche scontrandoti con loro. Dalla mia, ho il fatto di aver fatto per cinquant’anni il giornalista e aver acquisito la capacità di parlare con le persone e di capire quali sono le storie che vale la pena raccontare. Che, a pensarci, sono sempre storie minime, che appartengono alle persone più che ai grandi fatti della Storia.
Come quella dei raccoglitori di capelli che racconta in “L'inventario delle nuvole”, ambientato proprio in Valle Maira.
Quel romanzo è ambientato nel 1915 nel paese di Elva, in un mondo che sembra completamente diverso, cupo e solitario, in una società povera e chiusa. E dire che allora Elva aveva 1300 abitanti, ora ne conta 100: andando avanti di questo passo, è facile pensare che tra qualche decennio non ce ne saranno più. E chi racconterà, allora, la storia dei raccoglitori di capelli? Nessuno.
La letteratura come strumento per preservare la memoria della montagna?
Mi sono messo in mente che le storie vere che sono accadute, se non c'è qualcuno che le cerca e le racconta, finisce che è come se non fossero accadute mai. È per questo che per ogni libro cerco di trovare ogni volta una storia più piccola, che però sia riuscita a lasciare un segno e meriti di essere conosciuta.
Prima citava Cognetti. Nei mesi scorsi hanno fatto molto discutere le interviste in cui, raccontando della propria vicenda personale, lui ha in qualche modo smontato l’idea, oggi molto diffusa, di una montagna capace di “curare”. Nei suoi romanzi – nei quali la natura è sempre grande protagonista – questo effetto benefico di pacificazione, invece, si avverte sempre.
Penso che Cognetti abbia ragione. La montagna cura se siamo noi a voler essere, in qualche modo, curati. Certamente c’è un effetto fisico benefico degli elementi naturali – l’uomo si è sempre curato con la medicina naturale – ma non possiamo pensare che basti una passeggiata nel bosco per liberarci dei pesi che ci portiamo dentro. Le montagne dei miei libri non sono facili, ma sono luoghi nei quali i personaggi vivono bene perché entrano a far parte dell’architettura del posto e imparano ad adattarsi.
La montagna richiede “adattamento”: cosa significa?
Significa innanzitutto essere pronti all’imprevisto: la montagna insegna che tutto può cambiare in un attimo. Basta “un filo di vento”, appunto. Ed è qualcosa che si impara vivendoci.
Forse significa anche imparare che in montagna certe cose non possiamo trovarle e va bene così.
Questa è una consapevolezza che stiamo perdendo. I rifugi si chiamano così perché una volta servivano a “dare rifugio” alle persone che facevano lunghe traversate in montagna, oggi invece ci sono i rifugi “grand gourmet”, dove le persone vanno per fare grandi pranzi, perché si beve bene ed è meglio se c’è una strada comoda per arrivarci, e poi magari ci si lamenta se non si trova il gin tonic.
Ma la sua montagna del cuore qual è?
In realtà, non ne ho una sola. Io mi entusiasmo per qualsiasi montagna, per ogni borgo sparso, purché non ci sia caos. Da ragazzo ho frequentato sempre la montagna in senso verticale con lo sci e l’arrampicata. Da qualche anno, ormai, la vivo in senso orizzontale, con grandi traversate lungo i sentieri, nei boschi, nei fondovalle, e mi piace molto di più. Mi piace il paesaggio, ma soprattutto mi piace incontrare le persone che, se sono su quel sentiero come te, in qualche modo ti sono affini e ti danno la possibilità di scoprire storie meravigliose, che poi mi viene voglia di raccontare attraverso i libri.
Quale sarà il prossimo?
A breve uscirà un racconto per la nuova collana editoriale del Cai, che è ambientato sulle Alpi piemontesi nel 1570. In estate uscirà, invece, per Aboca un libro che si intitola “Piccola filosofia del sentiero”: non sarà un manuale, ma una raccolta di riflessioni di una persona che cammina da più di 50 anni e degli incontri che ho fatto, non solamente su Alpi e Appennini, ma anche in posti come la Somalia e il Sudafrica. Non dimentichiamoci che per noi è strano, ma almeno un terzo della popolazione nel mondo cammina ancora sui sentieri perché ci sono enormi distese di territorio dove le macchine non arrivano. E poi c’è il nuovo romanzo per Fazi, che uscirà a fine anno e sarà ambientato ancora in Appennino.
Ormai è più uno da Appennino che da Alpi.
In effetti, sto adocchiando case da quelle parti. Il mio nuovo motto è: “Orto, camino, un bicchiere di vino e una casa in Appennino”. Questo è il mio futuro.