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Cultura

Montagna: da sfondo infido e sfiancante, a scopo per stare meglio. Quando le trasformazioni sociali influenzano il rapporto con i territori

"Da questo passaggio sociale (la scoperta del tempo libero) nasce il mio 'andare in montagna'. Fino a lì ero andato a caccia, a funghi, a far legna, a pescare nell'ambiente in cui vivo, cioè in salita. Ma la montagna restava sfondo, infido e sfiancante, di altre attività. Finalmente abbiamo cominciato ad andar in montagna con le mani in tasca con il solo, generico scopo, di stare meglio"

di
Dalle vette feltrine
24 marzo | 15:00

Il mio primo ricordo di un'escursione in montagna mi racconta di una salita sul Monte Pavione con mio papà. Dovevo essere decenne o poco più e di quell'esperienza porto frammenti vivissimi: mangiammo un boccone seduti su delle roccette affioranti dal prato che precede l'ultima salita del Col de Luna, prima della sella e della breve tirata finale. Incastrata in una fessura trovai una scatoletta di carne Simmenthal. Fui sorpreso della ricchezza di quel pasto, visto che raramente quel cibo compariva al nostro tavolo, mentre mi sembrava naturale mangiare pane e salame e formaggio in gita.

 

Mio papà mi disse che probabilmente l'aveva lasciata un cacciatore, ed immaginai che le esigenze di un serio salitore di prati e ghiaioni si meritavano ben un tale banchetto: alla fine, al fucile le cartucce, al cacciatore la carne in scatola, e quello che restava era un altro bossolo. Non ricordo se lo portai a casa, o solo pensai di farlo, per usarlo come beverino per una gabbia per uccelli; tutte avevano beverini di latta riusati. Credo mia madre comprasse tonno o carne in scatola spesso più per le latte che per il cibo che contenevano.

 

In cima mio papà mi nominò le cime e i paesi che si vedevano da lassù. Quando mi indicò: "Quel ladò el é Imér". Un signore seduto di spalle, che al nostro arrivo ci aveva appena salutato, tornando apparentemente ad ignorarci, scandì ben chiaro: "Imèr!".

 

La discesa per i ghiaioni fu il momento cruciale della giornata. Avevo spesso sentito parlare della tecnica necessaria per scendere i pendii ripidi coperti di un alto strato di pietre, frammenti staccati dalle rocce sovrastanti.

A seconda della loro grandezza, della profondità dello strato, della pendenza e a chissà quante altre variabili bisogna alternare con tempi sincronizzati franamenti del piede solidale al ghiaione e passi decisi, tenendo ben rigide le caviglie. Quando arrivammo sull'orlo del prato con sotto quello scivolo di sfasciumi mio papà mi disse: "Varda come che fae mi" e saltò nel canale che da silente e scintillante al sole diventò sarabanda scrosciante. Non mi riuscì difficile scendere, anzi alla fine avrei voluto risalire per ributtarmi giù. A tratti franai, sasso tra sassi, per la linea più pendente, oscillando per tenermi in equilibrio in quella baraonda fragorosa. Alla fine togliersi gli scarponi e svuotarli dalle schegge che inevitabilmente, traboccando dal fiume, si son infilati dentro. Quella giornata è restata così ben incisa nella mia memoria per l'eccezionalità dell'evento. Fin da bambino seguivo sempre mio papà in tutte le attività in cui si occupava fuori dal lavoro.

 

Le domeniche e le feste non passavano inoperose. Erano gli anni settanta e il benessere economico che aveva raggiunto la mia famiglia, come tante altre, non aveva ancora modificato le abitudini. Gli adulti della generazione dei miei genitori erano quasi tutti figli di contadini che si erano occupati da giovanissimi presso artigiani che gli avevano insegnato un lavoro o avevano proseguito le attività di famiglia. Occupati in massa in fabbrica negli anni sessanta, avevano mantenuto anche la seconda occupazione, per abitudine, per dovere nei confronti degli animali e delle terre, per necessità economica. Spesso le mogli restavano a casa per occuparsi di orti e di campi, dei figli.

Spesso gli uomini lavoravano due occupazioni al giorno, sfruttando i turni, anche le ferie, per i momenti più impegnativi delle campagne o per compiere lavori complicati della seconda professione. Anche la caccia, la raccolta di funghi e piante commestibili, la pesca che erano praticate per necessità fino al dopoguerra, continuarono ad essere svolte per inerzia. Negli sciaguratissimi anni ottanta poi inevitabile arrivò la consapevolezza generale che non era più necessario lavorare o fingere di andar a caccia per portare a casa cibo, anche i giorni di festa, poiché bastava il reddito mensile che ormai in tutte le famiglie entrava per assicurare la sopravvivenza e pure molto altro. Ricordo perfettamente, ero ragazzetto, un muratore, mastodonte barbuto, vantarsi del fatto che adesso le domeniche pomeriggio non lavora più: dal lunedì al venerdì in cantiere, sabato e domenica mattina lavoretti da amici, poi stop, festa. La scoperta del tempo libero dalle nostre parti è sicuramente arrivata tardi per isolamento geografico e per una ritrosia generale del feltrino medio a tenersi lontano dalla fatica.

 

Da questo passaggio sociale nasce il mio 'andare in montagna'. Fino a lì ero andato a caccia, a funghi, a far legna, a pescare nell'ambiente in cui vivo, cioè in salita. Ma la montagna restava sfondo, infido e sfiancante, di altre attività. Finalmente abbiamo cominciato ad andar in montagna con le mani in tasca con il solo, generico scopo, di stare meglio. Ognuna delle innumerevoli persone che si dilettano di praticare escursioni in montagna rivela nella scelta dei tracciati e nel modo di percorrerli le proprie inclinazioni. Io ci vado per curiosità. Uso equilibrio, forza e orientamento per scoprire dove porta un vecchio sentiero ormai infrascato, cosa si vede oltre quella forcella, se si passa per quella cengia, oppure semplicemente per ripassare per luoghi che frequento regolarmente ma che cambiano ogni giorno come ogni pezzo di natura su questa terra. Godo di riandare, una volta disceso, alla geografia delle mie montagne, cercando di entrare nel dettaglio, ricordando nell'aspetto ogni passaggio chiave. Ci vado insomma come un contadino nel dì di festa, lieto dello svago e accorto nel passo, attento più ai particolari minuti che al panorama. Sempre che non debba far legna o svolgere altri lavori, comunque. A caccia e pesca non ci vado più, in quanto ai funghi mi son scocciato di andarci e non trovare niente per mie effettive scarse capacità visive. E quando ci vado, alla fine, non vado in montagna, ma vado in giro per il territorio che mi ospita e che percorro per abitudine e passione, e che vale tanto quanto vale ogni altro posto su questa terra.

 

Fossi nato al mare sarei marinaio, nessun merito, nessuno scampo.

l'autore
Dalle vette feltrine

Dalle Vette Feltrine è uno spazio, curato da Gianugo Tonet e Giuseppe Gris, che si occupa di Feltre e del suo territorio dalla prospettiva del vivere in montagna o nel passo appena prima di essa. Un belvedere, quello offerto allo sguardo che si apre dalle Vette, anche per il pensiero ed il racconto, perché vivere la montagna non è qualcosa di diverso, come spesso si pensa, dal raccontare la montagna. Da studiarla, cercarla, scalarla e, perché no, anche inventarla.

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