In Italia, quasi il 60% delle imprese di comunità si trova negli Appennini. Ma cosa sono? Che ruolo hanno nell'attuale contesto socio-ambientale?
Gli Appennini sono stati per secoli centri di innovazione e di scambio, sia in termini di prodotti che di modalità di organizzazione sociale, e non è dunque difficile comprendere perchè forme di imprese di comunità come quelle che stanno emergendo esponenzialmente in Italia negli ultimi 15 anni si stiano sviluppando proprio da qui
Gli Appennini sono stati per secoli centri di innovazione e di scambio. Non solo nei prodotti, ricordando che da qui vengono invenzioni come la carta, la ruota idraulica o la stampa del primo libro con caratteri mobili, ma anche nelle modalità di organizzazione sociale per la gestione sostenibile della terra, dei boschi e dei pascoli. Innovazioni che sono state possibili grazie al continuo movimento lungo la dorsale appenninica che ha generato una contaminazione positiva di cultura e biodiversità. Le montagne sono le fonti da cui si generano risorse come l’acqua, i boschi, i prati e la moltitudine di forme viventi che si generano negli ecosistemi. Non è quindi per caso che le innovazioni e le spinte di cambiamento venissero da qui, dove la terra generava risorse che poi venivano esportate nel resto del territorio ed oltre mare, rendendo gli Appennini il cuore del Mediterraneo.
Spostando lo sguardo alla ricerca di nuove prospettive, si può capire perché forme di imprese di comunità come quelle che stanno emergendo esponenzialmente in Italia negli ultimi 15 anni (passando da 25 nel 2010 a 243 nel 2023) si stiano sviluppando proprio da qui. Del totale delle imprese di comunità in Italia, quasi il 60% si trova negli Appennini, di cui una su due è ad un’altitudine superiore a 500 metri s.l.m., in paesi in cui vivono dai 100 ai 6000 abitanti, con un calo demografico medio del 21% negli ultimi 30 anni.
Le imprese di comunità sono entità radicate in specifici contesti geografici, impegnate nella produzione di beni, servizi e spazi di interesse comune. Sono strumenti per favorire lo sviluppo locale, soprattutto nelle aree rurali e urbane marginalizzate. Ci insegnano che l’innesco per fare impresa viene dal bisogno di riappropriarsi del territorio, di dare risposte attive alle problematiche sociali ed economiche e che il lavoro richiede un pagamento etico, più che di generare profitti. Creano o ricostruiscono filiere e reti locali, tessono legami di comunità, ma sviluppano anche relazioni con realtà esterne. Catalizzano innovazioni coinvolgendo gli abitanti del territorio, valorizzando competenze, culture e risorse locali. Hanno la consapevolezza che la cura dell’ambiente è un fattore cruciale sia per il mantenimento del territorio che per promuovere lavori di qualità. Consentono ai cittadini di partecipare attivamente alla governance d’impresa e contribuire allo sviluppo della comunità, attraverso un approccio di mutualità allargata. Favoriscono un rapporto mutualistico tra produzione e consumo e si impegnano a reinvestire gran parte dei profitti nella comunità, evitando la concentrazione del capitale. Quasi sempre scelgono la forma cooperativa, considerata la più vicina ai valori di comunità e di gestione economica collettiva delle attività svolte. Sono economie di comunità che reagiscono alla mancanza di servizi e alla crescente disuguaglianza tra i territori e guardano alle risorse della montagna come opportunità di rilancio. A loro modo, sono lo strumento con cui le comunità si riappropriano del modo di vivere la montagna: la pluriattività, il continuo movimento, la rivendicazione di quel che è proprio del territorio.
Se delle imprese di comunità la maggior parte si occupano di turismo e servizi alle persone, negli Appennini in molte vengono fondate anche con l’obiettivo di riattivare terreni e risorse dormienti. Il turismo diventa il mezzo per raggiungere obiettivi di rigenerazione e di rilancio territoriale, una parte fondamentale della multifunzionalità dell’impresa. Tuttavia, sono molti i casi in cui le imprese non riescono ad andare oltre questa visione del turismo, vittime della difficoltà di fare impresa in territori lasciati ai margini dalle istituzioni e dal mercato. Condividono comunque l’essere azioni di perseveranza e resistenza per abitare e lavorare in montagna, di non voler vivere i paesi in modo passivo come dormitori. Non sempre hanno successo, spesso sono ostacolate, altre volte non sono capacitate nelle azioni che vorrebbero realizzare. Questo anche per la loro natura indefinita, che le disegna artigianalmente sui territori ma le rende complesse da sistematizzare e normare. Sono poi ancora troppo poche quelle che sono riuscite a lavorare nell’ambito agro-silvo-pastorale e ad innovare il sistema.
Tra queste ci sono i Briganti di Cerreto, a Cerreto Alpi (frazione di 80 abitanti, 960 m s.l.m.) nel comune di Ventasso nel Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano che da quasi vent’anni (una delle prime esperienze di cooperazione di comunità) dimostrano che un gruppo di giovani che decide di rimanere in un luogo e fare della passione per i boschi un mestiere, può anche reinventare le economie di un paese, riattivando un metato spento da anni per produrre la farina di castagne e attivare servizi di turismo sostenibile e assistenza ai più fragili.
Scendendo lungo la dorsale, in Abruzzo a Navelli (530 abitanti; 760 m s.l.m.),sull’omonimo Altopiano ai piedi del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, si incontra invece la cooperativa di comunità OroRosso, avviata nel 2018 che, nella terra dello zafferano, aiuta piccoli produttori fornendo apprezzamenti di terra per avviare la coltivazione della spezia, e che allo stesso tempo gestisce l’ostello nell’ex convento di S. Antonio Civitaretenga sul Tratturo Regio che collega L’Aquila a Foggia e anima la cultura in paese.
Continuando il cammino si incontra la cooperativa di comunità di Biccari (2 642 abitanti; 450 m s.l.m.), tra i Monti Dauni della Puglia. Qui l’impresa nasce nel 2017, supportata dal progetto trasformativo del Comune, spinta dalla consapevolezza che il paese ha una vocazione agricola e forestale. Se le prime attività hanno riguardato la gestione di un uliveto ricavato da terreni abbandonati, l’impresa ha poi anche avviato attività innovative di cura del bosco e intrecciato servizi turistici e per la comunità, non dimenticando le minoranze linguistiche Arbresh.
Queste sono solo alcune storie di imprese che, con fatica, portano innovazione e recupero di relazioni umane e ambientali con la montagna che abitano. Sono imprese che per lo più non hanno finanziamenti pubblici o agevolazioni e che spesso soffrono la mancanza di competenze. Nessuna di queste imprese risalterebbe nella performatività economica: i fatturati sono generalmente molto bassi e mirati a coprire costi vivi e del lavoro. Reinvestono il poco margine prodotto in altre attività per la comunità. Talvolta creano confusione tra l’impresa e il volontariato e ci fanno riflettere sulla difficoltà di capire cosa sia “economia” intesa come transazione monetaria e cosa invece genera economie come relazione.
Sicuramente è un fenomeno che dalle nostre montagne si genera, che rivendica il fatto che in queste terre per fare impresa si deve prima fare comunità. Ma è anche un movimento che ci dimostra un bisogno: quello di creare imprese che si modellino sui territori e sulle persone che le creano.
I dati, le informazioni e le esperienze qui raccontate sono stati estrapolati dalla ricerca condotta con Euricse e pubblicata recentemente per analizzare i tratti distintivi e le traiettorie di sviluppo delle imprese di comunità in Italia. Una ricerca che ha incontrato il mio interesse di capire in quali modi si possa recuperare quel modo di fare comunità ed economia di cooperazione in montagna, non perché sia romantico, ma perché è stato ed è storicamente necessario e tracciato nella vene degli Appennini: la cura del territorio e delle sue risorse non possono che essere collettivi.
Per leggere il report Euricse (2024): https://euricse.eu/it/publications/le-imprese-di-comunita-in-italia-tratti-distintivi-e-traiettorie-di-sviluppo/
I riferimenti storici sono tratti da Ciuffetti, A. (2019). Appennino. Economie, culture e spazi sociali dal medioevo all'età contemporanea. Carocci.
Annalisa Spalazzi. Nata in un piccolo paese dell’Appennino Centrale, per diversi anni ha lavorato nelle periferie del Sud e dell’Est Europa occupandosi di programmi di collaborazione e strategie per l’innovazione e cambiamenti climatici, per poi decidere di tornare ad abitare l’Appennino. Oggi dottoranda in geografia economica e scienze regionali al Gran Sasso Science Institute dell’Aquila, nella ricerca, ma anche come abitante e attivista, si occupa di supporto e divulgazione delle pratiche di gestione collettiva delle risorse primarie dell’Appennino, con particolare attenzione ai boschi e alla pastorizia e le forme di economia di comunità che (ri)emergono nelle montagne di mezzo.
Francesca Sabatini. Nata a Napoli e vissuta a Roma, negli ultimi anni sta ritrovando le sue origini appenniniche di Pescocostanzo, in Abruzzo: paese di famiglia, montagne e ritorni. È PhD in Geografia, ha fatto un post-doc all’Università degli Studi dell’Aquila e attualmente è assegnista all'Università del Piemonte Orientale per una ricerca sulle geografie contemporanee della transumanza, in Piemonte e in Abruzzo. Si occupa di aree interne, disastri, turismo, metodi creativi e questioni di genere in geografia. Ha pubblicato una monografia per Guerini, articoli scientifici e racconti per riviste culturali. Fa parte del collettivo Emidio di Treviri e dell'APE Smarginando.