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Ambiente

Un fiume di cui si parla tanto, ma si sa poco: nel suo tratto montano, il Tagliamento è un re senza corona

Studiato come un modello di naturalità, in realtà il corso d'acqua friulano nel tratto carnico ormai non fa più parte del paesaggio

di
Anna Pugliese
09 febbraio | 18:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

È il re dei fiumi alpini, un corso d’acqua di 178 chilometri che nasce nei pressi del passo della Mauria, nel Bellunese, a 1200 metri di quota, per poi attraversare il Friuli e sfociare nell’alto Adriatico, tra Lignano e Bibione. 

 

È il Tagliamento, famoso per il flusso naturale, per la sua dinamica a canali intrecciati, un paradigma assoluto nel panorama fluviale europeo, un ecosistema  prezioso, tanto da essere  spesso citato come l'ultimo corridoio fluviale morfologicamente intatto delle Alpi. Un fiume che viene  definito naturale, primordiale, e in grado, per questo, di richiamare l’interesse di molti studiosi, di gruppi di studio da università europee, soprattutto alpine, ma anche dalle Montagne Rocciose. Vogliono vedere com’è fatto il Tagliamento, cercano un confronto e un’ispirazione per rinaturalizzare fiumi ormai compromessi.   

 

Un fiume, in realtà, di cui si parla tanto, ma si sa poco. Se ne discute, ultimamente, per il progetto, proposto dalla Regione Friuli Venezia Giulia, dove scorre quasi totalmente, di creare una traversa all’altezza di Dignano, a protezione della cittadina di Latisana, di cui scriveremo a breve, in un prossimo articolo. 

 

Quello che ci interessa raccontare, ora, anche per comprendere bene la dibattuta questione della traversa, sono le complesse vicende del corso del Tagliamento nella zona montana, in Carnia, da Forni di Sopra alla piana di Amaro, un terzo circa della lunghezza complessiva del fiume. Qui, in origine, il fiume era mobile, adattabile. Colpa di possenti eventi franosi, capaci di scalzare interi versanti e di creare paleo laghi, poi scomparsi, come quelli di Osoppo, Borta e  Forni di Sotto. Il flusso del Tagliamento, torrentizio, quindi spesso e volentieri vigoroso, era anche capace di modificare le rocce, di infilarsi nelle fratture e di riadattarsi al suo letto. Così, leggendo il territorio, si scopre, ad esempio, che la confluenza tra il Tagliamento e il Fella, suo affluente, si è spostata di 12 chilometri e che la vasta piana del paese di  Ampezzo è stata scavata dal fiume, sì, ma che oggi il Tagliamento si trova più a sud, in un nuovo letto, e non passa più nel borgo. 

 

Le modifiche più importanti, però, sono arrivate per mano dell’uomo. “Risalendo dal tratto mediano troviamo il Tagliamento sofferente, poi il Tagliamento morente ed infine il Tagliamento che non c’è più, in un alveo desertificato, in quanto alle acque è stato imposto un percorso idroelettrico che sfocia nel Lago di Cavazzo”, commenta Franceschino Barazzutti,  presidente del Comitato Tutela Acque del Bacino Montano del Tagliamento, già sindaco di Cavazzo Carnico (Ud). ll suo corso montano, in Carnia è stato totalmente sconvolto: le captazioni sono 32, tre le grandi dighe che hanno stravolto il corso del fiume, dei suoi affluenti, l’equilibrio naturale, il rapporto con le genti, il territorio. A Forni di Sotto ad esempio, c’è un prima, ricco di fontane, di vasche per la lavorazione della canapa, e un dopo, con le sorgenti nei pressi del paese purtroppo perdute. Il grande sogno dell’idroelettrico in Carnia era un progetto nato sulla scia della crescita dei poli industriali e chimici del nord est, Marghera in primis, con la Sade, negli anni Quaranta. Nel 1948  fu inaugurata la diga di Sauris, nel  1957 la diga di Verzegnis, 1958 le prime due turbine a Somplago, nel 1959 la diga dell’Ambiesta. 

 


 

Nel bacino del Lumiei-Sauris (capacità di 70 per 1000000 metri cubi)  si raccolgono le acque del torrente Lumiei e dell’alto corso del Tagliamento che qui arrivano con una serie di gallerie artificiali. Nel bacino dell’Ambiesta (capacità di 3,6 per 1000000 metri cubi) vengono scaricate, dopo essere state utilizzate dalla centrale a turbina di Ampezzo,  le acque del bacino del Lumiei. In questo bacino vengono convogliate anche le acque che giungono dai torrenti Degano e Vinadia oltre che quelle del Tagliamento, bloccato dalla presa di Caprizi. Dal secondo bacino, quindi, le acque vengono scaricate nel lago di Cavazzo dopo essere state utilizzate dalla centrale di Somplago. Cavazzo era un lago naturale ricco di fauna e flora. Oggi, con l’immissione di acque che arrivano dalle tubazioni, è un deserto di acqua fredda, priva di vita.

 

Le problematiche sono tante, la captazione dell’acqua porta ad esempio a fenomeni di subsidenza, di avvallamenti profondi, nella piana di Enemonzo, ricca di gessi. C’è  poi una disconnessione totale tra la popolazione montana e l’acqua. L’acqua è nascosta per gran parte del suo percorso carnico nelle tubature delle montagne: non si vede, non si sente. Non fa più parte dalle storie dei paesi, della vita delle persone. Si parla ancora di nuove derivazioni. Mentre la continuità del deflusso delle acque, stabilita, sulla carta, resta in molti casi una chimera. 

 

“Oltre alla necessità di ristabilire la continuità del deflusso negli alvei e la ri-naturazione del Lago di Cavazzo o dei Tre Comuni, è necessario che la Regione ponga un freno a nuove captazioni, come quelle richieste da società private tra Arta e Zuglio lungo il But e a valle di Pontebba, sul Fella. Alvei perennemente in secca e portate che scorrono in condotte forzate verso una serie di turbine poste in successione rappresentano una forma di sfruttamento 'coloniale' non più tollerabile, né compatibile con le direttive e le politiche dell’Unione Europea. L’obiettivo, in sostanza, è quello di ripristinare quell’uso plurimo e diversificato delle acque che ha caratterizzato la cultura delle popolazioni di montagna e identifica la stessa civiltà alpina”, fanno sapere dal circolo della Carnia Val Canale e Canal del Ferro di Legambiente. 

 

E poi c’è un importante tema economico, sociale. “La ormai prossima scadenza della concessione delle grandi derivazioni al servizio delle Centrali di Ampezzo e Somplago deve portare al subentro di una società pubblica regionale, sul modello di quanto è stato già realizzato dalle Province Autonome di Trento e Bolzano. In questo modo si potrebbe ambire a una gestione più corretta sotto il profilo ambientale e si potrebbe garantire quel ritorno economico per le comunità locali previsto dalla legge”, concludono i vertici della sezione della montagna friulana di Legambiente. 

 

In terzo luogo, come ha ben messo in luce la relazione della geologa Antonella Astori, i dati storici e le statistiche dimostrano che ad aver pagato il più alto prezzo in termini di perdite umane e di danni materiali per le numerose alluvioni registrate nel territorio della regione è stata la Montagna. Eventi eccezionali, come l’esondazione del Tagliamento a Latisana nel 1966 (che però non provocò vittime tra i residenti), sono dovuti al verificarsi simultaneo di tre fattori: precipitazioni intense, che si prolungano per più giorni consecutivi e colpiscono una area vasta. Solo la loro contemporaneità e l’accumularsi di un’onda di piena lungo il fiume ed i suoi principali affluenti può minacciare la Bassa friulana. Si tratta, quindi, di un evento di probabilità assai remota che non giustifica la realizzazione di un’opera contestata, molto costosa e problematica, come la prevista “Traversa” all’altezza del ponte di Dignano.

 

Infine, i cambiamenti climatici di cui abbiamo avuto dimostrazione negli ultimi decenni dimostrano la maggiore frequenza di eventi atmosferici particolarmente intensi, ma di breve durata e su aree circoscritte. Essi non costituiscono una minaccia per Latisana, ma provocano conseguenze anche gravi nell’area alpina e prealpina. Si tratta, quindi, di utilizzare le sempre più scarse risorse pubbliche nella cura e nella manutenzione del territorio, con interventi equilibrati e ragionevoli.

 

Foto in apertura di Matteo De Piccoli

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