Riflessione critica su un articolo de “La Rivista” del Cai. Non bisogna generalizzare per raccontare la gestione forestale: serve abitare la complessità
Negli scorsi giorni diversi lettori e lettrici ci hanno segnalato un articolo a firma di Paola Favero uscito sull'ultimo numero de “La Rivista del Club Alpino Italiano” come meritevole di alcune considerazioni critiche. La descrizione di quella che sarebbe, secondo l'Autrice, l'attuale gestione delle foreste italiane, appare assai semplicistica e generalizzante, spingendoci a una riflessione sulla necessità, sempre più urgente, di una corretta informazione su questo tema
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Sull’ultimo numero de “La Rivista del Club Alpino Italiano” è uscito un articolo, a firma di Paola Favero e intitolato “Alberi e boschi fragili”, che ci è stato segnalato da più parti come meritevole di un commento critico. In particolare, il testo ha mosso nello scrivente alcune riflessioni rispetto alla necessità di complessità nella divulgazione dei temi relativi alla gestione sostenibile delle foreste.
L’articolo ha uno scopo indubbiamente nobile ed è in buona parte condivisibile: mira a sensibilizzare sulle difficoltà che molte nostre foreste stanno attraversando nel contesto della crisi climatica, tra tempeste di vento, siccità, incendi e parassiti. Una problematica reale e non solo italiana, ben descritta anche nell’ultimo “Rapporto sullo stato delle foreste mondiali” della FAO di cui abbiamo recentemente dato notizia. Nel farlo, però, in particolare nella seconda parte del pezzo, l’Autrice si spinge a descrivere e a criticare l’attuale contesto gestionale delle foreste italiane con un approccio che, a parere di chi scrive, rischia di essere assai fuorviante. Semplificando e generalizzando oltre modo, non viene affrontata a dovere l’enorme complessità che sta alla base dell’interazione sostenibile tra esseri umani ed ecosistemi forestali.
I temi su cui mi vorrei concentrare per proporre un sano dibattito sono almeno due.
Il primo tema riguarda una considerazione che l’Autrice pone dopo aver ben descritto i danni subiti dalle nostre foreste a seguito della tempesta Vaia, dell’infestazione di bostrico e dei grandi incendi avvenuti negli ultimi anni. “A questi disturbi si aggiunge poi spesso l’azione diretta dell’uomo”, spiega Favero, “che per recuperare il legname caduto continua a costruire strade e piste forestali, anche dove non è necessario, aprendo nuove ferite su versanti già martoriati e creando nuove fragilità e dissesti”. Paola Favero prosegue descrivendo alcuni strumenti di meccanizzazione avanzata - harvester e forwarder in primis - come “armi a doppio taglio” che rischiano di compromettere struttura e biodiversità dei boschi e denunciando come, attraverso l’utilizzo di queste macchine, si stia perdendo il “fiore all’occhiello della tradizione forestale italiana”, cioè la selvicoltura naturalistica.
Indubbiamente le grandi macchine per il lavoro in bosco hanno un potenziale impatto, a causa della loro grandezza, pesantezza e capacità produttiva. Ma occorre ricordare che è proprio grazie a queste macchine che è stato possibile gestire l’evento Vaia recuperando almeno in parte il valore economico, così importante per il tessuto sociale locale, del legname abbattuto dalla tempesta. Grazie a queste macchine, inoltre, decisamente più sicure in tante situazioni operative, si sono registrati molti meno infortuni e morti sul lavoro tra gli operatori forestali. Queste grandi attrezzature poi, come dimostra il caso emblematico dell’incendio di Mompantero in Val Susa, possono permettere il rapido ripristino di interi versanti garantendo non solo il recupero del legname, ma anche il posizionamento strategico di parte dello stesso per evitare dissesti e favorire la rinnovazione naturale del bosco. In quell’intervento, ben progettato insieme all’università e alla struttura regionale, l’utilizzo razionale di mezzi pesanti non ha causato danni, ma al contrario ha favorito una veloce ed efficace gestione dell’emergenza.
Non sempre è così. Purtroppo i casi negativi di utilizzo delle macchine per l’esbosco non mancano affatto, ma come abbiamo scritto su L’AltraMontagna grazie ad un’intervista ai Professori Stefano Grigolato e Raffaele Cavalli, grandi esperti di meccanizzazione dell’Università di Padova: “È necessario cambiare il paradigma con cui si valutano le grandi macchine forestali considerando soprattutto le modalità di impiego e le precauzioni adottate nei confronti dell’ambiente forestale. Ancora una volta la soluzione va trovata non solo nella tecnologia, ma soprattutto nella formazione e nell’addestramento tecnico, condizioni fondamentali per preparare i professionisti e gli operatori forestali all’utilizzo delle grandi macchine”. Il tema vero, insomma, non sono le macchine in sé, ma l’utilizzo che se ne fa, che può essere compatibile o meno, in base ai vari contesti, con la selvicoltura naturalistica. Per risolvere questi potenziali rischi occorre investire sul capitale umano, non certo puntare il dito contro le macchine.
Una piccola postilla finale, su questo primo tema, relativa alle strade forestali. Come sa bene l’Autrice, boschi più accessibili da strade ben pianificate e realizzate a regola d’arte sono boschi in cui la selvicoltura naturalistica, che è ancora ben presente sulle Alpi, può essere svolta al meglio, con meno costi e interventi più leggeri e capillari. La presenza di strade, inoltre, facilita enormemente il monitoraggio, la sorveglianza e la lotta antincendio: tutte attività più che necessarie proprio nell’attuale contesto climatico.
Il secondo tema riguarda l’energia da biomasse legnose. Dall’articolo di Paola Favero traspare come il legno utilizzato come fonte energetica non sarebbe “carbon neutral” e addirittura neppure da considerarsi rinnovabile. L’autrice scrive correttamente che per utilizzare e trasformare energeticamente il legno in energia si spende energia (per la movimentazione delle macchine, i trasporti, ecc.), quindi il bilancio (dato dal riassorbimento della CO2 durante la ricrescita del bosco) non è del tutto neutro. Nel testo non si spiega però qual è la differenza, in termini emissivi, del legno rispetto alle fonti fossili, le prime responsabili di quella crisi climatica che provoca i danni alle foreste così ben descritti dall’Autrice. Recenti studi sull’intero ciclo di vita delle fonti energetiche, descritti anche nel podcast divulgativo “Una nuova filiERA”, hanno stimato che le emissioni complessive legate ai combustibili fossili variano tra 200 e 280 grammi di CO2 equivalente per kWh di energia. Nel caso di cippato e legna da ardere, invece, si parla mediamente di emissioni pari a 20-25 grammi per kWh, valore che cala ancora di più nel caso di filiere corte e locali: significa circa un decimo rispetto alle emissioni dei combustibili fossili!
Di conseguenza, se impiegata in filiere corte basate su una corretta pianificazione forestale e in impianti efficienti, l’energia derivante dal legno è sicuramente da considerarsi una nostra alleata contro la crisi climatica. In Italia, al momento, Il 17% delle famiglie fa uso di legna (di cui circa il 60% in tutto o in parte con autoapprovvigionamento) e il 7,3% di pellet, evitando così di utilizzare fonti fossili. Attualmente il 64% di tutto il calore rinnovabile prodotto in Italia proviene da bioenergie ed esse saranno destinate a ricoprire una quota importante di calore rinnovabile anche al 2030, pari al 43% secondo il PNIEC (Piano Nazionale Integrato Energia e Clima), contribuendo così al mix complessivo delle rinnovabili italiane.
Davvero bisognerebbe rinunciare a questo bene primario? Oppure sarebbe utile continuare ad utilizzarlo gestendo i boschi in modo corretto, anche migliore rispetto ad oggi? Come scrive Favero, è sicuramente opportuno un “approccio a cascata”, che valorizzi in termini energetici solo il legname di scarto, ma è pur vero che in certi boschi e da certi interventi selvicolturali non è sempre possibile ricavare legno da opera.
Tutto, ancora una volta, dipende. Tutto sta nella nostra capacità di contestualizzare e di saper valutare e gestire problematiche enormemente complesse.
A proposito di complessità, penso sia questa la parola chiave fondamentale per raccontare il difficile, necessario, affascinante rapporto tra esseri umani e foreste. “Oggi è certamente necessario piantare alberi ma ancora più importante è non tagliare boschi”, scrive l’Autrice nel finale del suo articolo: credo che questa frase rappresenti, al contrario, il massimo dalla semplificazione. Perché per rendere le foreste più resistenti e resilienti mantenendo la loro capacità, fondamentale per tutti noi, di generare servizi ecosistemici ed aiutarci nella transizione ecologica grazie al legno da opera, da energia e all’assorbimento di CO2, è necessario in parte gestirle, quindi anche “tagliare boschi”, o meglio, realizzare interventi di buona selvicoltura. Lo spiegano i grandi documenti internazionali, gli studi, lo certifica pure l’IPCC (il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico).
In certe aree potrà essere opportuna una protezione integrale per tutelare la biodiversità, indubbiamente, ma in altre occorrerà invece lavorare di più e meglio che in passato, non cedendo alla logica dell’abbandono che sposta i problemi (e le opportunità) altrove. A differenza di quanto scrive Favero, come certificano L’Inventario Forestale Nazionale e tutte le statistiche ufficiali (ma basta guardare qualche foto d’epoca per osservarlo direttamente) le foreste italiane sono davvero molto aumentate nonostante i disturbi amplificati dalla crisi climatica. Siamo il nono Paese al mondo per incremento annuo della superficie forestale nel periodo 2010-2020, come dimostra l'ultimo Rapporto FAO (vedi tabella sotto) e le nostre foreste sono raddoppiate di superficie rispetto ad un passato non certo da rimpiangere, come dimostrano i documenti e i dati storici sulla situazione forestale italiana tra la fine dell’800 e i primi del ‘900, molto (ma molto!) peggiore rispetto ad oggi.
Proprio per prevenire i disturbi amplificati dal riscaldamento globale e contribuire alla sua mitigazione è necessario pianificare, gestire, analizzare, studiare e - come può fare chi come noi racconta e scrive - informare in modo approfondito, vedendo nella complessità un valore, una nuova chiave di lettura per educare rifuggendo da facili semplificazioni, inutili sensazionalismi e vaghe nostalgie, che spesso finiscono per generare confusione ed essere controproducenti rispetto alla propria stessa causa.
Alcuni problemi sollevati da Paola Favero, in determinati contesti specifici, esistono eccome: denunciamoli, discutendone nel merito analizzando i singoli casi di presunta “mala gestione forestale”, ma senza generalizzare. E poi, soprattutto, proponendo soluzioni concrete, capaci di abbracciare per intero l’enorme complessità - ambientale, sociale, economica - di un tema così delicato e centrale per il nostro futuro.