Marzia e Annalisa, donne di montagna: ''La vita in malga è dura tra cambiamento climatico, poca attenzione ai piccoli produttori e troppa burocrazia''
Migliorare si può: promozione locale per i prodotti tipici, più manutenzione dei territori e puntare sulla qualità: ''Di fatto sono le piccole aziende che curano il territorio, eppure gli aiuti finiscono anche nelle mani sbagliate a causa di speculazioni sugli alpeggi''
A cura di Sandy Fabiane
Marzia Verona è scrittrice e allevatrice e collabora nella piccola azienda agricola del compagno a Nus, Aosta. Annalisa Celant è malgara, d’estate gestisce con la famiglia malga Costa Cervera, sulla dorsale Cansiglio-Cavallo, e d’inverno ha un caseificio a Polcenigo: dopo Caterina De Boni, altre due donne di montagna ci raccontano il loro lavoro, tra cambiamento climatico e burocrazia.
Siccità, poco foraggio e parassiti tra le conseguenze del cambiamento climatico
“Uno degli aspetti oggi più rilevanti – spiega Verona – è sicuramente il cambiamento climatico. Quest’anno sono stati molto forti gli sbalzi di temperatura e anche gli animali ne risentono: pur potendo pascolare anche in inverno, bisogna infatti considerare che, quando non ci sono le foglie a fare ombra e il cibo è più scarso, il sole e le alte temperature li fanno molto patire.
Due anni fa abbiamo avuto invece grossi problemi di siccità, soprattutto per la difficoltà a trovare i pascoli e abbeverare gli animali. Normalmente sul foraggio siamo autosufficienti, ma negli ultimi anni abbiamo dovuto acquistarlo a un costo non indifferente, visto che il problema era diffuso. Inoltre, l’assenza di erba e acqua può causare un ritardo nella salita in alpeggio o l’anticipo della discesa mentre il caldo prolungato comporta un ritardo nel calore delle capre, che influisce sulla gestione dell’allevamento.
Poi c’è il discorso dei parassiti, molto più presenti e difficili da debellare. Da noi, ad esempio, c’è un problema con moscerini detti Simulidi, da alcuni anni presenti anche a quote più elevate e che pizzicano da un lato i bovini, causando shock anafilattico e la possibile morte, dall’altro le mammelle delle capre che hanno appena partorito, facendole sanguinare e impedendo ai capretti di succhiare il latte. Purtroppo i trattamenti veterinari non risolvono del tutto il problema, forse a causa della quantità di moscerini presenti.
Si tratta quindi di tante piccole e grandi conseguenze: non siamo ai livelli del Sud Italia, dove la situazione è più critica, però si cammina comunque sul filo del rasoio.”
…ma è ancora poca la consapevolezza
Nonostante tutto ciò, la percezione del cambiamento climatico rimane limitata. Marzia ha partecipato al progetto Pastoralp, intervistando pastori e allevatori per indagarne la percezione del fenomeno: “Volevamo capire se stavano mettendo in pratica delle strategie, o quali ritenevano dovessero essere attuate, per fronteggiarlo. È però emersa la tendenza a negarlo: la maggior parte dimostrava scarsa percezione, secondo me dovuta al fatto che il problema è talmente grande da comportare uno stravolgimento, quindi forse è meglio negarlo perché affrontarlo va oltre la portata del singolo.”
Aiuti soprattutto alle grandi aziende: si punta poco sulla qualità
La produzione di prodotti di qualità di montagna, invece, risente soprattutto di mancanza di manutenzione dei territori e poca attenzione alle piccole aziende. “La maggior parte degli aiuti – sostiene Verona – è purtroppo destinata alle aziende più grosse. Qui in Valle d’Aosta le aziende sono tutte abbastanza piccole perché il territorio è ridotto e la produzione principale è legata alla fontina, che è una DOP, quindi con molti vincoli.
Ciò nonostante è comunque capitato che fossimo esclusi da misure che erano state pensate a livello territoriale, in quanto 30 capre e 20 bovini non rientravano nei numeri necessari per avere accesso ai finanziamenti. Di fatto, tuttavia, sono le piccole aziende che curano il territorio, eppure gli aiuti finiscono anche nelle mani sbagliate a causa di speculazioni sugli alpeggi. Il problema è che si lavora sui numeri, che siano di animali o ettari, e non sulla qualità e le conseguenze sono molteplici, a partire dalla pulizia e sistemazione dei pascoli di cui difficilmente le aziende grandi si occupano.”
Più formazione del personale e cultura dei prodotti di qualità
La situazione è simile anche sul versante opposto delle Alpi. “Personalmente – spiega Celant – ho la fortuna di avere una tradizione e delle basi da cui partire, tuttavia le difficoltà non mancano. La principale riguarda la mancanza di investimenti: io produco un prodotto tipico da tradizione, il formaggio di malga diventato presidio slow food, e posso farlo perché lavoro in una stanza attrezzata dove storicamente lo si produceva, ma le condizioni in generale non sono agevoli, dalla scarsità d’acqua alla mancanza di corrente e il mancato mantenimento della viabilità.
Inoltre, si fa fatica poi a vendere i prodotti: ho dovuto aprire un caseificio in paese, ma non è facile chiudere il cerchio con i costi né vendere tutto, perché le persone si spostano più che altro nel fine settimana e in genere per mangiare, non per acquistare.
Si è persa un po’ la cultura di questi prodotti e mancano sicuramente progetti che facciano conoscere l’importanza di questo settore economico: nel nostro piccolo possiamo fare poco, non riusciamo a farci conoscere al punto da avere quella soddisfazione che contribuisce a mantenere l’attività.
Una delle soluzioni è l’integrazione con altre attività. Ad esempio, con le coltivazione dei cereali di valle ho fatto la nostra birra agricola e lavoro il latte a 360 gradi, dal sapone al liquore al latte, che pur non essendo prodotti agricoli, completano l’offerta. Se trovassimo del personale formato potremmo integrare ulteriormente, ma non si trovano persone formate che facciano la stagione in un luogo disperso e io non posso permettermi di investire autonomamente anche in formazione.
È quindi tutta una catena e siamo in difficoltà per una serie di cose. Io sto tentando soluzioni diverse, usando tutto il dinamismo che mi sento di possedere, però negli ultimi anni è difficile andare avanti con un certo equilibrio. Servirebbe maggiore valorizzazione di questi prodotti, mentre spesso prevalgono scopi economici diversi dai nostri, che sono etici, ambientali, di territorio e di legame con qualcosa difficile da descrivere”.
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