La lotta non basta più per “I paesaggi del fuoco". Per combattere i nuovi grandi incendi occorre investire nella prevenzione, attraverso la gestione attiva del territorio
Giuseppe Delogu, autore della recente conferenza “I paesaggi del fuoco: da antica opportunità a problema della modernità” e grande esperto sardo di incendi boschivi, intervistato per L'AltraMontagna ci parla di fuoco, di crisi climatica, di grandi cambiamenti avvenuti nei territori rurali e di possibili soluzioni innovative per mitigare il rischio incendi, negli ambienti mediterranei e non solo
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Giuseppe Delogu è uno dei più grandi esperti di incendi boschivi in Italia, argomento che ha imparato a conoscere da molto vicino nella sua terra, la Sardegna, da sempre legata al fuoco. Già Comandante del Corpo Forestale e di Vigilanza Ambientale della sua regione e autore di libri e articoli dedicati al tema, oggi fa parte del Gruppo incendi della Società Italiana di Selvicoltura ed Ecologia Forestale - SISEF. Da pochi giorni Delogu è stato ospite della rassegna “Dialoghi di archeologia architettura, arte e paesaggio” di Cagliari, dove ha tenuto una conferenza-lezione molto interessante, della durata di circa un’ora e disponibile integralmente su YouTube, dal titolo: “I paesaggi del fuoco: da antica opportunità a problema della modernità”.
Lo abbiamo contattato a seguito di questa sua esposizione per parlare di incendi, di crisi climatica e ambienti mediterranei, perché le “Altre Montagne” che amiamo raccontare sono talvolta anche basse di quota e a poca distanza dal mare.
La Sardegna, con una superficie forestale censita dall’Inventario Forestale Nazionale 2015 pari al 54% dell’intero territorio, è un’isola ricca di aree boscate, che negli ultimi decenni hanno subìto un grande mutamento. Come vedremo, questa trasformazione vegetazionale, insieme a quella climatica indotta dall’aumento dei gas serra in atmosfera, sono le due chiavi per comprendere i “nuovi incendi” che oggi minacciano drammaticamente questi ecosistemi e la sicurezza della popolazione.
“La frequenza e le intensità più elevate degli incendi sono il miglior indicatore del cambiamento in atto”, ci ha spiegato Giuseppe Delogu, “dagli incendi "pastorali" si è passati a quelli "di interfaccia", cioè posizionati nelle arre di confine tra spazi urbani e forestali, segno non solo del riscaldamento globale, ma anche di due importanti fattori sociali”. Si tratta da un lato dell'abbandono dei terreni agricoli e delle relative attività di manutenzione del territorio, con la conseguente forte e spesso incontrollata espansione della macchia mediterranea; dall'altro della presenza di insediamenti sparsi e, soprattutto, della crescita di periferie dominate da incuria e degrado. “A fare la differenza è però l'accumulo di combustibile”, sottolinea Delogu, “tutto ciò che in passato si raccoglieva per gli usi quotidiani, oggi diventa materiale disponibile alle fiamme”.
Se c’è più combustibile, disponibile in modo continuo su vaste superfici abbandonate, è facile intuire come le fiamme di un incendio possano trovare, davanti a sé, un’autostrada su cui correre. Ma come incide invece il riscaldamento globale in atto? Nella lezione, Delogu parla di un fenomeno curioso, conosciuto come “paradosso dell’estinzione”, che è fondamentale per comprendere un grande male del nostro tempo: l’assenza di una cultura della prevenzione.
“Il mondo occidentale, soprattutto dalla seconda metà del secolo scorso, ha ritenuto di poter eliminare il problema degli incendi con una strategia di stampo quasi "militare": un attacco contundente sui primi focolai, per evitare che si espandano”, spiega l’esperto, “così ha sviluppato potenti strutture terrestri ed aeree che sono in grado di intervenire efficacemente sul 90% degli eventi nelle giornate a meteorologia "tranquilla", dove le fiamme di ogni singolo evento vengono domate in fretta, limitando i danni a piccole superfici”. Il vero problema sono però le “giornate estreme”, che purtroppo in molte estati, in ambiente mediterraneo, sono oggi la normalità, con temperature maggiori di 35°C, umidità relativa minore del 15-20% e venti forti e variabili. “Quando gli incendi partono in queste condizioni meteorologiche il sistema collassa, non è più in grado di intervenire efficacemente e pochi, singoli eventi si trasformano rapidamente, diventando ampi e devastanti”, spiega Delogu, “Il paradosso dell'estinzione è questo: quanto più abili si è diventati a spegnere i primi focolai, tanto più si è inermi nelle giornate e nei luoghi critici”.
Ed è così che nascono i cosiddetti megafires, i nuovi grandi incendi, quelli più temuti nell’epoca odierna, caratterizzata dal combinato disposto di abbandono dei territori rurali e crisi climatica.
“I megafires, o meglio gli "eventi estremi di incendio" (EWE) sono caratterizzati da fiamme lunghe oltre 7-10 metri, velocità di propagazione superiore a 5 km/h e fenomeni meteo connessi come formazione di pyrocumuli/pyrocumulonembi, downdrafts ecc.”, spiega Delogu, “si pensava fossero limitati ad ambienti come l'Australia o gli Stati Uniti, ma da tempo vengono registrati anche nel Mediterraneo”.
La situazione appare drammatica perché le aree mediterranee, soprattutto quelle adiacenti alle coste, rappresentano da un lato un contesto fortemente urbanizzato, dall’altro un ambiente preziosissimo per la biodiversità: i grandi incendi minacciano così sia la vita dei cittadini che quella di preziosi ecosistemi.
“Qui si è rotto l'equilibrio storico tra esseri umani e fuoco, documentato fin dal Neolitico”, sottolinea Delogu, “per questo l’estinzione è una delle risposte, ma non certo la soluzione del problema”.
Quali sono allora le soluzioni, da mettere in atto urgentemente nelle arre mediterranee e non solo? Giuseppe Delogu non ha dubbi: “Il fuoco nei nostri ambienti non può essere eliminato, ma occorre conviverci. Ciò si può raggiungere attraverso un’accurata gestione annuale e pluriennale dei combustibili vegetali all’interno di una pianificazione forestale, a scala locale e di distretto, che si associ anche alla pianificazione di protezione civile, intervenendo così sulla riduzione del pericolo e non solo sulla vulnerabilità e l'esposizione dei cittadini”. Serve, insomma, cambiare paradigma: passare dal solo approccio “militare”, che rischia di fallire nel “paradosso dell’estinzione”, a una gestione del territorio a tutto tondo, fatta di interventi di selvicoltura preventiva nelle aree forestali e basata su una progettazione complessiva di paesaggi agro-silvo-pastorali più variegati e perciò più resistenti e resilienti.
“Occorre, ove possibile, reintrodurre il fuoco prescritto e il pascolo prescritto, per ridurre il combustibile e la sua continuità nello spazio”, chiosa Giuseppe Delogu, “occorre potenziare le fasce parafuoco ai margini degli insediamenti urbani, magari attraverso fasce attive agricole (vigneti, orti urbani, prati), per disegnare un mosaico di biodiversità e di economie, anche tradizionali. Occorre poi investire nella percezione del rischio da parte delle persone e nella formazione tecnica sull'uso responsabile del fuoco”.
Questa nuova necessità, ovviamente, non esclude tutte le altre azioni utili, anzi, si muove in stretta sinergia con esse: è nell'unione di una buona e attiva gestione del territorio, di attività di sorveglianza e previsione, di progetti didattico-culturali e di un'efficace capacità di lotta attiva che si può trovare la soluzione a questo enorme problema, sempre più evidente. Insomma, occorre investire sui territori rurali e sulle comunità che li abitano, per renderli più resilienti e consapevoli. La logica dell’abbandono, in particolare per questo tema, non appare ancora una volta la strategia più efficace.
Qui è possibile vedere integralmente la conferenza di Giuseppe Delogu: