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Ambiente

Il peso psicologico di portare cattive notizie. Ansia, rabbia e tristezza: anche gli scienziati reagiscono emotivamente al cambiamento climatico

La crisi climatica non è solo una minaccia per gli ecosistemi e la società, ma anche una fonte di profonda angoscia emotiva per chi la studia da vicino. Un articolo pubblicato su Nature solleva una questione cruciale che spesso viene trascurata: come gli scienziati stessi reagiscono emotivamente alla crisi climatica e quanto sia difficile per loro esprimere queste emozioni all'interno di una comunità che tradizionalmente considera la scienza come un dominio di rigida oggettività

di
Sofia Farina
27 ottobre | 12:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

La crisi climatica non è solo una minaccia tangibile per gli ecosistemi e la società, ma anche una fonte di profonda angoscia emotiva per chi la studia da vicino: gli scienziati del clima. Un articolo pubblicato su Nature Climate Change pochi giorni fa solleva una questione cruciale che spesso viene trascurata: come gli scienziati stessi reagiscono emotivamente alla crisi climatica e quanto sia difficile per loro esprimere queste emozioni all'interno di una comunità che tradizionalmente considera la scienza come un dominio di rigida oggettività.

 

La narrativa predominante che vuole la scienza totalmente separata dalle emozioni umane sta diventando sempre più insostenibile di fronte alla crescente consapevolezza della gravità della crisi climatica. Gli scienziati del clima, che lavorano quotidianamente con dati allarmanti e previsioni inquietanti, sono spesso sopraffatti da emozioni di ansia, rabbia e tristezza. La stessa idea che esprimere queste emozioni possa indebolire la loro credibilità come ricercatori è profondamente radicata, ma è sempre più evidente che questa visione limita il modo in cui il problema viene affrontato.

 

Uno dei passaggi più incisivi dell’articolo su Nature Climate Change riguarda la difficoltà che molti scienziati vivono nel comunicare al pubblico la realtà della crisi climatica, unito al peso psicologico di essere portatori di cattive notizie. Spesso si trovano a oscillare tra la speranza e la disperazione, cercando di trovare un equilibrio tra l'allarme per il futuro e la responsabilità di mantenere la calma. Gli scienziati vivono quotidianamente il paradosso di essere consapevoli delle catastrofi imminenti, ma di essere costretti a reprimere le proprie emozioni per evitare di essere visti come allarmisti.

 

Molti scienziati ammettono di essere gravemente preoccupati, come esemplificato da alcune lettere presenti nel progetto "This is How Scientists Feel" (che si può tradurrre con: "Questo è il modo in cui si sentono gli scienziati"), un'iniziativa che raccoglie le testimonianze personali di chi lavora in prima linea contro la crisi climatica. La scienziata Katrin Meissner, ad esempio, scrive: "Mi sento frustrata e arrabbiata. Siamo consapevoli del pericolo imminente. Eppure, continuiamo a rinviare le azioni decisive. Il nostro pianeta ci sta inviando segnali evidenti, ma noi continuiamo a ignorarli. Sento una profonda responsabilità come scienziata, ma anche un'angoscia crescente per il futuro dei miei figli e delle generazioni future. "Le parole di Meissner riflettono chiaramente il dilemma che molti ricercatori affrontano: sanno cosa sta accadendo e cosa potrebbe accadere se non agiamo subito, ma vedono con amarezza che le politiche non sono all'altezza della gravità della situazione.

 

Anche Joëlle Gergis, un'altra scienziata climatica, esprime in una lettera una profonda tristezza per il mondo che sta cambiando davanti ai suoi occhi: "Il pensiero di un mondo devastato da eventi estremi mi riempie di terrore. Ogni giorno mi sveglio sapendo che stiamo perdendo specie, ecosistemi e vite umane. Tuttavia, non posso arrendermi. Amo questo pianeta e mi sento in dovere di proteggerlo. È questa la forza che mi spinge a continuare, anche quando la disperazione sembra prendere il sopravvento". La testimonianza di Gergis mostra come la passione per la conservazione del pianeta e l'amore per la natura possano diventare una fonte di motivazione in un contesto altrimenti desolante.

 

L’articolo su Nature evidenzia che la pretesa di separare la scienza dall’emotività ha radici profonde nella storia della scienza stessa, ma che è un paradigma che deve essere superato. Il modello che vede gli scienziati come figure oggettive, distaccate dalle preoccupazioni emotive, si dimostra sempre più inadeguato in un momento in cui la crisi climatica richiede empatia e connessione umana. Le emozioni vissute dagli scienziati, infatti, potrebbero diventare una risorsa, stimolando nuove ricerche e approcci innovativi. L’angoscia e la frustrazione, se riconosciute e accettate, possono alimentare la curiosità scientifica e spingere verso soluzioni più creative.

 

Un esempio è la lettera di Bradley Opdyke, che descrive la sua frustrazione nell'essere costantemente frainteso o ignorato: "Mi sento come se stessi gridando in una stanza vuota. I nostri dati sono chiari, eppure la risposta della società non è all'altezza. Mi fa male sapere che le cose potrebbero essere diverse se solo si agisse con decisione. Il peso di questa consapevolezza mi travolge a volte, ma continuo a sperare che le cose possano cambiare". La frustrazione di Opdyke è un chiaro esempio di quanto sia difficile, per gli scienziati, conciliare il loro ruolo di portatori di conoscenza con l'apparente indifferenza politica e sociale.

 

L’articolo su Nature mette in evidenza come la crisi climatica richieda un cambiamento radicale nel modo in cui viene comunicata. Non si tratta solo di trasmettere dati e numeri, ma di far comprendere al pubblico l'urgenza e la profondità del problema, senza temere che l'espressione di emozioni umane possa compromettere la credibilità scientifica. Comunicare il cambiamento climatico come una questione puramente tecnica, secondo gli autori dello studio, è riduttivo: c’è bisogno di una narrativa che coinvolga anche la dimensione emotiva, permettendo agli scienziati di mostrare vulnerabilità e preoccupazioni autentiche. In effetti, diversi scienziati hanno iniziato a riconoscere il valore di comunicare apertamente le loro emozioni. È il caso di Sarah Perkins-Kirkpatrick, che, nel progetto "This is How Scientists Feel" ha scritto: "Mi sento impotente a volte, ma anche determinata. Il peso della crisi climatica è schiacciante, ma non posso permettere che mi paralizzi. Devo fare la mia parte, devo continuare a lottare, anche quando sembra che la battaglia sia persa". Questa combinazione di vulnerabilità e determinazione, come quella espressa da Perkins-Kirkpatrick, è un esempio di come le emozioni non indeboliscano il lavoro scientifico, ma lo rendano più autentico e urgente.

 

In un mondo sempre più colpito dagli effetti della crisi climatica, è chiaro che la scienza da sola non basta. Gli scienziati devono avere il coraggio di mostrare non solo ciò che sanno, ma anche come si sentono riguardo a ciò che sanno. L’idea che la scienza debba essere puramente obiettiva è ormai obsoleta e controproducente. Come sottolineato nell'articolo pubblicato su Nature, la crisi climatica richiede una risposta che coinvolga tutti gli aspetti dell’essere umano, inclusi quelli emotivi. In un momento storico in cui il tempo è essenziale e le risposte sono in ritardo, l’amore per il pianeta, la preoccupazione per il futuro e persino la rabbia per l’inazione politica possono alimentare non solo la ricerca, ma anche la speranza di un futuro migliore.

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