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Ambiente

Grandi macchine forestali sulle Alpi: i rischi, le opportunità, la lezione di Vaia

Dal secondo dopoguerra in poi, come in ogni settore, anche in quello forestale si è assistito ad un progressivo incremento della meccanizzazione. La tempesta Vaia, in questo, ha rappresentato un netto punto di discontinuità: anche nei boschi alpini si sono diffuse, molto più che in passato, le grandi macchine forestali come "harvester" e "forwarder". La presenza di questi mezzi ha suscitato perplessità, preoccupazioni, anche proteste. Ma quali sono i veri rischi di queste macchine? E come è possibile prevenirli? Ne parliamo con due grandi esperti: Raffaele Cavalli e Stefano Grigolato, dell'Università degli Studi di Padova

di
Luigi Torreggiani
01 febbraio | 12:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

"Elicotteri, e-bike, mountain bike, motoseghe, harvester, forwarder… tutti mezzi o strumenti che in montagna camminano su una linea sottile, come quella di un’affilatissima cresta. Per non perdere l’equilibrio, per non trasformare il mezzo in uno strumento pericoloso, è necessario divulgare consapevolezza ed educazione: tra i fruitori del territorio, ma soprattutto tra chi lo governa e lo gestisce"

 

Con queste parole Pietro Lacasella, curatore de L'AltraMontagna, chiudeva un suo recente editoriale. Il messaggio è chiarissimo: se con il coltello si può tagliare il pane, ma anche far del male a una persona, il problema non è nel coltello, bensì nell'utilizzo che se ne fa. Questa considerazione vale anche per le grandi macchine forestali, che negli ultimi decenni si sono via via diffuse anche nei territori alpini e appenninici e che, a seguito della tempesta Vaia, hanno visto un utilizzo sempre maggiore nelle Alpi centro-orientali.  

 

Non c'é dubbio che queste grandi macchine rappresentino un potenziale rischio per l'ambiente montano. Al tempo stesso, è anche chiaro che senza di esse le operazioni di ripristino post-tempesta avrebbero generato molti più rischi per la salute degli operatori forestali e tempi decisamente più lunghi. Non c'è dubbio che i costi elevati di queste macchine spingano le imprese che le acquistano a intensificare il proprio lavoro. Al tempo stesso, la maggiore comodità e sicurezza data da queste attrezzature stanno portando molti giovani dei territori a riavvicinarsi, con passione e professionalità, al lavoro in bosco.

 

Il tema perciò, come spesso accade in ambito forestale, è molto complesso: proprio per questo è sbagliato ragionare con una visione manichea, che si esprime a suon di slogan.  Consapevolezza ed educazione, come ha scritto Lacasella, sono le parole chiave per comprendere e gestire questi fenomeni.

 

Abbiamo posto alcune domande a due grandi esperti di meccanizzazione forestale e lavoro in bosco: Raffaele Cavalli e Stefano Grigolato, del Dipartimento TeSAF dell'Università degli Studi di Padova

 

 

Nell’ultimo secolo le attrezzature utilizzate per il lavoro in bosco si sono evolute enormemente. Professor Cavalli, ci può descrivere in breve come è cambiato, dal secondo dopoguerra, il rapporto tra “Uomini, boschi e macchine” (il titolo della Lectio magistralis da lei recentemente tenuta all’Università di Padova), in termini di sicurezza, produttività e potenziali rischi per l’ambiente forestale?

 

Il settore forestale, così come quello agricolo, ha fatto registrare una crescita progressiva della meccanizzazione delle operazioni a partire dal secondo dopoguerra. Gli interventi hanno riguardato innanzitutto l’abbattimento e l’allestimento degli alberi, per i quali è stata introdotta la motosega in sostituzione dell’accetta e del segone; allo stesso modo, per l’esbosco terrestre, gli animali sono stati sostituiti dal trattore mentre per l’esbosco aereo i fili a sbalzo da un lato e le teleferiche dall’altro hanno ceduto il passo alle “gru a cavo”, con stazione motrice semifissa o mobile.

 

L’innalzamento del livello di meccanizzazione ha avuto come effetto immediato l’aumento della produttività del lavoro, ma ha modificato lo scenario della sicurezza e della salute dei lavoratori, con l’introduzione di rischi correlati all’impiego di macchine e attrezzature motorizzate. Ciò ha richiesto un’evoluzione non solo delle tecnologie meccaniche e dei dispositivi di protezione, ma anche delle norme emanate a tutela dei lavoratori. Parallelamente si è operato, in particolare negli ultimi decenni, sulla formazione e sull’aggiornamento tecnico degli operatori forestali nella consapevolezza che nel binomio "uomo-macchina" entrambi i fattori devono essere oggetto di uno sviluppo e di una crescita coordinati.

 

L’incremento della meccanizzazione ha comportato una più forte interazione con l’ambiente forestale, in particolare per quanto concerne gli impatti al suolo, all’acqua, all’aria, alla fauna e alla vegetazione. La circolazione di macchine comporta un inevitabile calpestamento degli orizzonti superficiali e, se non il danneggiamento degli apparati radicali, certamente una riduzione della loro funzionalità. I passaggi ripetuti delle macchine possono creare la formazione di ormaie sulle quali possono instaurarsi fenomeni erosivi che aumentano i sedimenti nelle acque superficiali, peggiorandone la qualità. La presenza di macchine e attrezzature motorizzate è una fonte di rumore alieno che disturba in modo temporaneo o permanente la fauna selvatica; allo stesso modo tale presenza influenza, pur se in misura puntiforme, la qualità dell’aria.

 

Anche per questi elementi è cresciuta nel corso degli anni una sensibilità da parte sia delle autorità delegate alla gestione dei boschi sia degli operatori boschivi, che si è concretizzata nell’adozione di misure di attenuazione degli impatti che agiscono sia attraverso ritrovati tecnologici sempre più perfezionati, sia mediante tecniche di lavorazione che limitano gli effetti dell’interazione delle macchine e delle attrezzature con l’ambiente forestale.

 

 

Le macchine che tagliano, sramano e depezzano alberi nel giro di una manciata di secondi incutono molto timore nell’opinione pubblica. Emblematico un recente titolo del Corriere della Sera riguardante il video di un harvester al lavoro: “Il macchinario più spaventoso al mondo”. Si tratta di preoccupazioni più che comprensibili e legittime, ma occorre andare più a fondo della questione. Professor Cavalli, qual è la chiave per affrontare questo tema in modo razionale e mitigare il più possibile l'impatto delle grandi macchine forestali?

 

L’aumento delle dimensioni e della potenza dei motori delle macchine è un fenomeno connaturato nell’evoluzione della meccanizzazione sia in campo agricolo sia in quello forestale. È chiaro però che l’effetto che suscita un harvester che abbatte e allestisce un albero in poche decine di secondi è ben diverso da quello di una mietitrebbiatrice impiegata nella raccolta del frumento o di una falciatricacaricatrice utilizzata nella raccolta del mais, macchine che nella maggior parte dei casi sono assimilabili all’harvester per dimensioni e per potenza del motore. E questo accade perché il giudizio con cui si valutano grandi macchine forestali è fondamentalmente connaturato al luogo dove operano, ossia il bosco, e al materiale che processano, ossia gli alberi. Un bosco non è un campo di mais, né dal punto di vista della percezione comune né, soprattutto, da quello ecologico e ambientale. 

 

È perciò necessario cambiare il paradigma con cui si valutano le grandi macchine forestali considerando soprattutto le modalità di impiego e le precauzioni adottate nei confronti dell’ambiente forestale. Coloro che assumono un ruolo strategico nel fare in modo che l’utilizzo delle grandi macchine avvenga in modo efficiente e razionale sono, da un lato, il progettista dell'intervento selvicolturale e, dall’altro, l’operatore della macchina. Ancora una volta la soluzione va trovata non solo nella tecnologia, in particolare in quella digitale, ma soprattutto nella formazione e nell’addestramento tecnico, condizioni fondamentali per preparare i professionisti e gli operatori forestali all’utilizzo delle grandi macchine.

 

 

I cantieri di ripristino a seguito della tempesta Vaia sono stati un enorme “banco di prova” per l’utilizzo dei grandi macchinari forestali sulle Alpi, la cui presenza è molto aumentata, grazie a forti investimenti da parte delle imprese boschive aiutate anche da sovvenzioni pubbliche. Professor Grigolato, cosa ci ha lasciato questa esperienza collettiva in termini sia di errori commessi da analizzare - per evitare ovviamente di ricadervi - sia di buone pratiche da replicare?

 

È inutile nascondere che la tempesta Vaia rappresenta un punto di discontinuità per il sistema foresta-legno nelle Alpi orientali e, in parte, anche per Alpi centrali. A seguito degli estesi danni alle superfici forestali si è da subito evidenziata la necessità di recuperare il valore economico del legname e di intervenire in tempi rapidi alla messa in sicurezza delle aree con prevalente funzione protettiva. Da subito è stato chiaro che la capacità di lavoro delle imprese locali non sarebbe stata sufficiente a recuperare il legname nei tempi necessari per evitare il suo deterioramento e per ridurre per quanto possibile il rischio di pullulazione di bostrico (qui una puntata del nostro podcast sul tema - n.d.r.).

 

Queste condizioni hanno portato a due effetti: il primo è quello di aver attirato la presenza di imprese boschive estere, spesso di grandi dimensioni e con macchinari altamente specializzati; il secondo, concomitante, quello di aver motivato le imprese locali ad investire in macchine di grandi dimensioni, al fine di aumentare la competitività aziendale e garantire una maggiore produttività e livello di sicurezza per gli operatori forestali. Di conseguenza, i “lotti Vaia” si sono ben presto caratterizzati come cantieri ad elevata intensità di lavoro, estesi come non mai.

 

 

A questo punto la criticità maggiore ha riguardato l’organizzazione dei cantieri, la logistica dei trasporti, la gestione degli stoccaggi e la necessità di migliorare la rete delle infrastrutture stradali di accesso alle superfici forestali. Questo ha creato ulteriori opportunità di crescita professionale, ma ciò che è rimasta difficile da implementare, soprattutto per mancanza di esperienza e formazione, è stata la progettazione e la definizione di specifiche linee guida per l'esecuzione dei cantieri che vedevano l’impiego di grandi macchine. 

 

Per quanto riguarda i cantieri si è perciò assistito a due situazioni opposte. La prima, positiva, ha visto coinvolti proprietari e imprese esperte nell’utilizzo di macchine specializzate, che hanno collaborato trovando il compromesso tra produzione e contenimento dei disturbi al suolo attraverso l’adozione di accorgimenti particolari. La seconda, negativa, si è registrata laddove i proprietari non avevano mai avuto esperienza con cantieri fortemente meccanizzati e, contemporaneamente, erano coinvolte imprese e/o operatori alla loro prima esperienza con macchie di grandi dimensioni; lo stesso è valso per la presenza di ditte talvolta disinteressate a lavorare a “regola d’arte”. Ciò ha portato a diverse superfici forestali fortemente impattate dai cantieri.

 

In sintesi, si sono verificate le condizioni per comprendere quali sono le tecniche e gli accorgimenti per condurre cantieri forestali con minimo disturbo al suolo e per evidenziare la necessità di far crescere, nei proprietari e nelle imprese, la consapevolezza che per lavorare con macchine specializzate e di grandi dimensioni è necessario avere esperienza o attivarsi per una formazione specifica.

 

In conclusione

 

Le parole di Raffaele Cavalli e Stefano Grigolato ci spingono a osservare le moderne macchine forestali da un altro punto di vista, andando oltre la semplice apparenza. Ciò non significa affatto abbandonare uno sguardo critico, ma spostare le proprie considerazioni dalle macchine in sé al "capitale umano" che le circonda: gestori, proprietari, amministratori, progettisti e operatori che necessitano di formazione specifica, esperienza e sensibilità. La strada, insomma, è ancora una volta da ricercare in una quanto mai necessaria crescita culturale

 

I cantieri di Vaia e del bostrico rappresentano, in questo contesto, un incredibile patrimonio di conoscenza da cui si dovrà ripartire, per trasformare le lezioni accumulate, positive ma purtroppo anche negative, in norme, linee guida e buone pratiche volte a far convivere, in equilibrio, "uomini, boschi e macchine".

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