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Ambiente

Come si adatta una foresta al cambiamento climatico? Uno studio ha analizzato le strategie messe in atto dalle faggete italiane. E si scopre che quelle del centro-sud sono le più resilienti

Una nuova ricerca ha messo in luce la risposta alla siccità di diverse faggete analizzate lungo la penisola. Dallo studio, pubblicato su Scientific Reports, emerge che le faggete appenniniche centro-meridionali sono più resilienti di quelle alpine nell’attuale scenario climatico, che vede temperature e periodi di siccità in costante aumento

di
Luigi Torreggiani
15 aprile | 18:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

C'è una specie forestale che accomuna tutte le montagne d’Italia: dalle Alpi all’Appennino, Sicilia compresa, solo in Sardegna non trova casa naturalmente. Si tratta del faggio, un albero che chiunque frequenti le montagne italiane ha osservato da vicino, risalendo i versanti verso le vette e rimanendo sicuramente ammaliato dai fusti chiari e lisci, dalla maestosità di alcuni esemplari o dalla calda tavolozza autunnale del fogliame.

 

Secondo l’Inventario forestale nazionale le faggete sono i boschi più rappresentativi del Paese a livello di volume: da sole, contengono ben il 18% del legno presente in tutte le foreste d’Italia. Anche in termini di superficie sono tra le categorie forestali più presenti nel Paese: coprono infatti oltre un milione di ettari sugli 11 milioni totali dei boschi italiani

 

Il faggio è perciò una specie importantissima per gli ambienti forestali della nostra penisola, anche perché legata da secoli alle attività umane. Basti pensare al “Gran Bosco da reme” della Repubblica di Venezia, la Foresta del Cansiglio, dove dai dritti faggi d’Alpago venivano prodotti i remi per la flotta della Serenissima; ma anche all’utilizzo storico di questo legno per realizzare numerosi utensili, mobili e anche carbone: quante vecchie aie carbonili si trovano ancora sparse nelle faggete di Alpi e soprattutto Appennini!

 

Il faggio, insomma, è da sempre al centro dei nostri interessi: ecologici naturalmente, ma anche economici e sociali. Un albero di grande valore, in tutti i sensi, da studiare con cura soprattutto oggi, in un’epoca caratterizzata dalla crisi climatica, che può provocare numerosi cambiamenti anche a carico dei popolamenti forestali.

 

 

Studiare i meccanismi di resilienza del faggio nel contesto del cambiamento climatico è stato l’obiettivo di una ricerca, realizzata dal Cnr in collaborazione con l’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli e la Libera Università di Bolzano, i cui risultati sono stati pubblicati da pochi giorni sulla rivista Scientific Reports. La ricerca, prendendo in esame diverse faggete di tutta Italia in un arco temporale di quasi 50 anni (1965-2014), ha messo in evidenza le diverse strategie attraverso le quali questa specie è in grado di conservare l’umidità e reagire alla siccità. Un indicatore chiave, in particolare, è stato attenzionato dal team di ricerca: “l’efficienza intrinseca” nell’utilizzo dell’acqua.

 

“L’efficienza intrinseca nell’uso dell’acqua è la quantità di carbonio assimilata come biomassa per unità di acqua utilizzata dalla pianta durante il processo di fotosintesi, valutata misurando la composizione isotopica del carbonio negli anelli annuali degli alberi”, spiega Paulina Puchi, ricercatrice del Laboratorio di Modellistica Forestale del Cnr-Isafom e prima autrice dello studio, che abbiamo raggiunto per farci raccontare i risultati della ricerca. “Se durante un periodo di siccità gli alberi chiudono i loro stomi (piccoli forellini presenti sulle foglie), per ridurre la perdita di acqua durante la fotosintesi, questo è segno di un aumento dell’efficienza intrinseca nell’uso dell’acqua, ma può portare alla morte della pianta a causa della carenza di carbonio nel lungo termine, perché, con gli stomi chiusi, l'ingresso del biossido di carbonio (CO2) necessario per la fotosintesi è limitato e si riduce la capacità della pianta di produrre carboidrati e altre sostanze essenziali per la sua crescita e sopravvivenza. Viceversa, una diminuzione nell’efficienza intrinseca comporta un aumento della traspirazione come meccanismo di sopravvivenza durante la siccità, ma può causare la formazione di bolle d'aria (embolie) nello xilema, la struttura idraulica dove avviene il trasporto di acqua e altre sostanze negli alberi. Queste bolle d'aria bloccano i vasi, interrompendo il trasporto efficiente di acqua e nutrienti all'interno delle piante, con conseguenze negative sulla loro salute e sopravvivenza a lungo termine”.

 

Lo studio, analizzando queste diverse strategie di utilizzo dell’acqua, ha messo in luce la differente risposta alla siccità delle popolazioni di faggio analizzate lungo la penisola. E dai risultati si scopre, ad esempio, che le faggete appenniniche centro-meridionali sono risultate più resilienti di quelle alpine nell’attuale scenario climatico, che vede temperature e periodi di siccità in costante aumento.

 

 

“Le faggete centro-meridionali sono risultate più resilienti, quindi più capaci di reagire agli stress. Questo perché, probabilmente, sono più acclimatate”, spiega ancora Paulina Puchi, “tali foreste hanno sperimentato una storia evolutiva che le ha esposte anche in passato a vari stress di questo genere, portandole a sviluppare efficienti meccanismi di adattamento. Al contrario, le faggete delle Alpi, che hanno una storia evolutiva differente, sono risultate meno resilienti, in particolare dopo lunghi eventi siccitosi come quello del 2003”.

 

“Studi di questo genere sono fondamentali per comprendere come le specie arboree si stanno adattando al cambiamento climatico e quali strategie fisiologiche stanno adottando per sopravvivere durante eventi estremi”, sottolinea Alessio Collalti, ultimo autore dello studio e responsabile del Laboratorio di Modellistica Forestale del CNR.

 

Si tratta di studi dai quali in futuro potranno scaturire precise indicazioni pratiche, sia a livello di politiche di conservazione che di gestione forestale sostenibile, ma che ci mettono soprattuttodi fronte a un’evidenza: i boschi stanno già cambiando e cambieranno ancora più rapidamente seguendo l’avanzamento del riscaldamento globale. Le faggete italiane non stanno certo collassando, è utile sottolinearlo per evitare di creare inutili allarmismi, ma certi stress ne stanno minando, piano piano, la resilienza.

 

Come un elastico che viene tirato con forza, certi disturbi mettono in tensione la capacità di reagire della foresta. Spesso, dopo lo stress, l’elastico viene rilasciato e torna esattamente come prima. Ma dopo tante forti tensioni, sempre più ravvicinate, anche un elastico molto robusto si può sfibrare e infine rompere. Questo nuovo studio, analizzando in dettaglio le “varie tipologie di elastici” presenti nei boschi di faggio, aiuterà ricercatori e gestori forestali a comprendere e a prevedere il loro possibile comportamento futuro, mostrando i pericoli a cui potrebbero andare incontro e suggerendo nuove strategie operative per “aiutare” la resilienza di questi ecosistemi, da sempre fondamentali per tutti noi.  

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