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Ambiente

Attraversare le montagne per raccontare la crisi climatica. Storia di Adele Zaini, fisica, climatologa, alpinista

Adele Zaini è uno degli esempi più interessanti di come l'attivismo in campo ambientale possa scegliere strade non scontate. Insieme a tre compagne di viaggio, a cui in itinere si è aggiunta una quarta, ha deciso di intraprendere un viaggio a piedi attraverso le Alpi ponendo la massima attenzione a quello che ci si porta dietro uscendo dalla soglia di casa, soppesando ogni dettaglio affinché fosse compatibile con un impatto dolce sul territorio

di
Camilla Valletti
30 gennaio | 18:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Fisica, climatologa, alpinista, Adele Zaini è uno degli esempi più interessanti di come l'attivismo in campo ambientale possa scegliere strade non scontate. Insieme a tre compagne di viaggio, a cui in itinere si è aggiunta una quarta, ha deciso di intraprendere un viaggio a piedi attraverso le Alpi ponendo la massima attenzione a quello che ci si porta dietro uscendo dalla soglia di casa, soppesando ogni dettaglio affinché fosse compatibile con un impatto dolce sul territorio. Proprio come invitava a fare Robert Mcfarlane.

 

Vuoi raccontarci come è nato il progetto United Mountais of Europe? Le difficoltà di concretizzarlo, i cambiamenti di rotta?

 

Il progetto è nato dal bisogno di dare voce alla Montagna, alle montagne. Esse sono infatti così grandi, che quasi ci intimidiscono quando ci troviamo al loro cospetto, ma allo stesso tempo sono ecosistemi estremamente fragili. Sono le primissime ad accusare le conseguenze del clima che cambia e dove molti dei problemi ambientali e sociali del nostro tempo vengono manifestati in tutta la loro criticità. Sono delle giganti silenziose. Ed è così che la Montagna è diventata la protagonista del progetto di United Mountains of Europe, e noi sue portavoci in questo progetto. Le montagne non come confini, ma come cerniere tra nazioni. Le montagne con come luoghi da sfruttare incondizionatamente per il nostro divertimento, ma come compagne di viaggio - come ci piace dire: “Non camminiamo sulla montagna, ma CON la Montagna”. Ci siamo quindi imbarcate in questo progetto con un approccio propositivo, mostrando che un’alternativa non solo è possibile, ma permette di vivere ancora più a pieno e nel profondo l’intera esperienza con la Montagna. Siamo partite per un viaggio attraverso Alpi e Pirenei, tra le maggiori Montagne d’Europa, per mostrare la molteplicità di dimensioni, le opportunità, ma anche i problemi che le interessano (fusione dei ghiacci, sfruttamento del turismo di massa, questione dell’accessibilità…), con un approccio sostenibile nei trasporti – treno, bus e passaggi, nell’alimentazione – vegetale e locale, e nella scelta dell’attrezzatura – seconda mano dove possibile, e solo il necessario dagli sponsor. Seguendo gli elementi della Montagna, in un climax ascendente – acqua, terra, roccia, ghiaccio, aria -, abbiamo esplorato le grotte della Slovenia, camminato tra i boschi dell’Austria, arrampicato le pareti della val Masino e navigato tra i crepacci del ghiacciaio del Moreratsch in Svizzera. In viaggio abbiamo dovuto affrontare difficoltà legate al maltempo, che in montagna significa prendere decisioni legate alla sicurezza e imparare a scendere a compromessi con essa. Il viaggio si è quindi interrotto prima di arrivare ai Pirenei, e abbiamo dovuto abbandonare la realizzazione del documentario che stavamo filmando. Ci siamo però rese conto che la forza del progetto stava nella comunità che si stava creando attorno a noi grazie alla comunicazione del progetto, dei principi e dell’amore che ci muoveva.

L’ultima tappa del viaggio? L’Unione Europea. I principi e gli elementi su cui si fondava il progetto sono l’avventura, il rispetto, l’efficacia e la co-creazione. Oltre che ispirare al cambiamento attraverso il nostro viaggio, come potevamo essere ancora più efficaci nel salvaguardare la Montagna se non appellarci alla Commissione Europea per far riconoscere il suo valore, per dare diritti alle montagne? Un atto simbolico, ma con forza legale.

L’11 dicembre, la giornata internazionale della montagna, abbiamo quindi tenuto un evento a Bruxelles a pochi passi dalla sede della Commissione, in cui hanno partecipato esperti della montagna, guide alpine, presidenti dei vari Club Alpini europei, atleti, come Sean Villanueva e Siebe Vanee, ma anche esponenti della commissione, per co-creare, insieme, le basi per la scrittura della Carta dei Diritti delle Montagne. Dopo una parte di evento pubblico per il coinvolgimento della comunità degli e delle appassionate della montagna, abbiamo quindi raggiunto insieme la sede della Commissione Europea, dove abbiamo consegnato il testimone a Marco Onida, membro della Commissione, perché sia quindi questa a mettere a terra attraverso il lavoro di esperti e esperte ciò di cui noi portavoci della Montagna abbiamo iniziato a gettare i semini.

 

 

Dalle Alpi all'Unione Europea di Bruxelles, un salto non da poco, per presentare la carta dei diritti delle montagne. A quali principi vi siete attenute per scrivere la vostra carta e come è stata accolta in sede europea?

 

Dare diritti a entità inanimate può sembrare un atto un po’ rivoluzionario e innovativo. Diritti vengono dati alle persone, al più agli animali, ma non a entità inanimate. Non è però la prima volta che succede. Fiumi in Nuova Zelanda hanno già ora diritti riconosciuti, così come il Gange in India. Diritto ad esistere, prosperare, rigenerarsi ed evolversi. Le costituzioni di Ecuador e Bolivia includono i Diritti della Natura. Dare diritti significa riconoscere il valore e l’importanza di questi elementi fondamentali per le nostre vite. Significa elevare ciò che noi consideriamo qualcosa da sfruttare e accessorio, come invece entità con una propria integrità e identità, non definibile solo in relazione al servizio che ci fornisce, ma completa in sé stessa. Riconoscere questo valore porta con sé, attraverso la presa di consapevolezza, il rispetto per questo elemento. Se si rispetta, non si inquina. Se si rispetta, non si sfrutta incondizionatamente. Mi ha molto colpito la storia di una comunità di donne Quechua in Peru, per cui l’elemento dell’acqua ha una valenza sacra. “Sentiamo il bisogno che l’acqua sia felice, che abbia una vita serena” mi ha detto Magdalena Machaca Mendieta. “Non inquiniamo l’acqua perché poi diventa torbida, ma perché è collettrice delle nostre anime”. Ha concluso: “Cambia tutto se si smette di considerare come un servizio, ma la si considera come una persona”.

Non è poi solo un atto simbolico, estremamente potente e efficace a mio avviso, perché permettere di rivoluzionare la prospettiva con cui guardiamo alla Montagna, ma dare diritti ha anche una forza legale vincolante. Chi non rispetta questi diritti va incontro a sanzioni. Ovviamente le sanzioni sono sterili senza un percorso di avvicinamento a queste tematiche, ma dà comunque efficacia al cambiamento.

 

 

Da allora quali sviluppi ha avuto la vostra iniziativa? Avete avuto uno straordinario riscontro mediatico, perché secondo te?

 

Da allora il progetto ha preso diverse forme più personali. Ci siamo infatti dovute scontrare con la realtà delle nostre vite. Purtroppo ad oggi l'attivismo è ancora relegato al tempo libero e non è ancora un'attività riconosciuta e retribuibile. Un progetto come quello di UME richiedeva un lavoro a tempo pieno, che con non pochi sforzi e sacrifici siamo riuscite a portare avanti per quei mesi. Oggi ognuna di noi è ancora un’"attivista della Montagna" in progetti che sono più sostenibili per le nostre vite. Ti (vi?) confesso però che sento UME ancora come una parte piccina ma importante di me stessa, mi ha fatto crescere molto e rafforzare il mio rapporto con le mie compagne di viaggio e il mio più grande amore: la Montagna.

In prima istanza, ci ha molto colpito l'eco che questo progetto stava avendo, già dagli inizi. Siamo finite su testate come il Fatto Quotidiano, Vanity Fair, Elle, riviste di montagna, come loScarpone e The Pill, e altri magazine. Ci hanno intervistate per podcast, abbiamo vinto il premio Meroni per il nostro impegno nella salvaguardia della montagna e siamo state invitate al National Geographic Festival. Insomma, incredibile per cinque ragazze che non erano "nessuno" fino a ieri. Ed è forse proprio questa una delle ragioni principali. Avere storie molto diverse tra di noi (una disegnatrice, una scrittrice, una scienziata, una climber e musicista, la project manager), ma allo stesso tempo così "normali" ci ha permesso di toccare chi ci ascoltava ed empatizzare con loro. Un altro elemento importante a mio avviso è che era un progetto così nuovo, quasi unico: cinque ragazze, attiviste e alpiniste, attraverso le montagne d'Europa per dare diritti alle montagne... Un progetto fondato su tanto entusiasmo e passione, con diversi elementi e con una missione molto virtuosa e condivisibile. E arrivo a toccare un altro punto importante, a cui sono arrivata dalla mia esperienza nell'attivismo climatico. Questo era anche un progetto che non dava fastidio e non toccava gli interessi dei più. Molto spesso progetti legati alla sostenibilità riguardano almeno cambiare le proprie abitudini, che sia come alimentiamo la nostra casa, cosa mangiamo o indossiamo... il progetto di UME invece riusciva ad avere principi etici forti, una missione, un cambio di prospettiva, che non allontanava chi ascoltava, ma anzi lo/a coinvolgeva in prima persona.

 

 

Quanto ha pesato rispetto all'attenzione pubblica la vostra appartenenza di genere?

 

Questo direi che è l'ultimo degli elementi principali che penso abbiano contribuito a entusiasmare e a coinvolgere così tanto. Ad oggi il mondo della montagna, e in particolare quello dell'alpinismo e della scalata, è ancora principalmente dominato dalla componente maschile. Giusto per dare un'idea, nel corso di alpinismo del CAI di cui sono istruttrice, sono l'unica ragazza con una quindicina di istruttori maschi. A volte le proporzioni cambiano, ma sicuramente decrescono con l'aumentare delle difficoltà e esposizioni. Le guide alpine in Italia sono poco più di 1300, solo 28 sono donne (*dati del 2022).  Penso che leggere di un progetto che nasce da questo contesto, ideato e realizzato al 100% da ragazze incuriosisca e stupisca. Non c'era alcun uomo a portarci su per le vie di roccia o a guidarci per i sentieri e i ghiacciai, come invece avviene, quasi di default, nella maggior parte delle situazioni. E vi confesso che vedere le mie chiappe mentre scalavo in val Masino, affiancate alle foto di Matteo Della Bordella in Patagonia sullo Scarpone (rivista del CAI), è stata una soddisfazione non irrilevante. Il mio desiderio è che tutta questa attenzione si trasformi in qualcosa di costruttivo e di ispirazione per molte altre. Per attuare un cambiamento abbiamo anche bisogno di esempi, e se questi e queste sono anche persone nomali, ha ancora più effetto perché non è qualcosa di irraggiungibile. Siamo persone normali, con anche le nostre vulnerabilità e debolezze, e nonostante ricopriamo un certo genere, questo non ci limita a mettere tutte noi stesse nella nostra missione di difendere le montagne.

 

 

Cosa pensi di forme di attivismo ambientale estreme rispetto alla tua?

 

Se il progetto di UME ha preso una strada di dialogo con le istituzioni, quando ci si muove più sull'ambito climatico i movimenti possono prendere forme più estreme. 

Inizialmente non le capivo e le consideravo controproducenti alla causa. Poi ho iniziato a grattare un po’ la superficie e semplicemente ad ascoltare chi portava se stesso o se stessa in condizioni anche così pericolose.

Ho capito che è l'espressione della disperazione della situazione in cui ci troviamo. Da ricercatrice in questo campo, dietro quelle traiettorie nei grafici vedo i disastri non solo ambientali, ma anche umanitari a cui stiamo andando incontro se non agiamo. E stiamo giorno dopo giorno, finendo il tempo per contenere questi danni. Io stessa ha avuto momenti di profonda ansia, in cui si manifesta, ma che rimane sempre lì latente. Perché poi si scontra con il mondo lì fuori che sembra inerte alla catastrofi verso cui ci stiamo dirigendo. 

La storia inoltre ci insegna che le grandi rivoluzioni per i diritti sono avvenute grazie ai movimenti di disobbedienza civile, le suffragette in Inghilterra, Gandhi in India, Martin Luther King negli Stati Uniti. Oggi noi consideriamo loro le eroine e gli eroi del loro tempo, chi ha avuto il coraggio di infrangere la legge per vedere riconosciuti i propri diritti. Oggi la storia si sta ripentendo, ma questa volta non si stanno difendendo i propri interessi, questi attivisti e attiviste stanno cercando di dare voce alla scienza, e il diritto che stanno difendendo è quello di tutti e tutte alla vita sulla Terra.

Una delle più grandi difficoltà è proprio che questa sfida, forse la più grande e difficile, è anche la più complessa da comprendere. Per la nostra mente non è fisiologicamente semplice processare e collegare logicamente eventi sulle scale della climatologia. Chi decidere di approfondire e imparare a comprenderle, percepisce l’emergenza della situazione in cui già oggi ci troviamo, anche se gli effetti delle nostre azioni -o inazioni- si manifesteranno poi.

Ed è qui che il ruolo dei media diventa chiave. Essi si soffermano solo sulla parte di disordine pubblico di queste azioni, che è creato apposta per portare però l’attenzione sui messaggi e le richieste, quelle che poi vengono ignorate o non investigate come dovrebbero – perché questa persona è disposta a incatenarsi a un camion? È pazza o c’è qualcosa di grave che sta cercando di comunicare?

Per cui non penso che né i messaggi né i metodi siano sbagliati, anzi trovo siano necessari, perché scuotono la nostra quotidianità, portano la crisi climatica al centro dell’attenzione, riescono a bucare la bolla di chi è già sensibile, ciò che i movimenti moderati non riescono a raggiungere. Il problema sta nel come viene comunicata la disobbedienza civile, e se si fallisce in questo punto allora sì può anche diventare controproducente, ma questo non è solo responsabilità dei movimenti climatici…

 

 

Ora ti trovi in Norvegia proprio per ragioni di studio, come fai a trovare il modo per  dedicarti alla causa della montagna?

 

Risposta breve: devo ancora trovare io stessa una risposta a questa domanda. E’ molto difficile per me non essendo sul territorio, non potendo tenere vivo il mio network di bellissime persone che condividono questo stesso bisogno, e prendere parte a iniziative. Ciò che riesco a fare a distanza però è comunicare attraverso i social il mio approccio alla Montagna, cercando di decostruire ciò che ci hanno sempre insegnato fosse l’unico modo di viverla, e riscoprirla sotto una nuova luce, in altre dimensioni, che non sono per forza quella della cima. Come dice Cognetti, nelle “Otto Montagne”, ognuno ha la propria dimensione, in cui si sente nella sua comfort zone e che gli o le dona più felicità e realizzazione, il bosco, le pietraie, gli arbusti sopra la linea degli alberi, i ghiacciai, le pareti rocciose... Ho abbracciato completamente l’approccio di “Allontanare le montagne”, termine coniato dal mio amico Giovanni Montagnani, attivista, divulgatore e “allontanatore di montagne”. Approccio che mette in discussione il modo in cui raggiungiamo le montagne, perché diventa incoerente se questo comporta le emissioni di gas che portano alla loro trasformazione e deterioramento. Quindi la sfida si sposta dal conquistare la cima a come raggiungere la base della montagna, l’avventura non parte dall’inizio del sentiero o dai piedi della parete ma dalla porta di casa e l’attenzione si sposta dalla meta al viaggio per raggiungerla, anche se a volte questo comporta abbassarla o “allontanarla”. Le mie giornate in montagna si sono arricchite di treni, di ore sulla mia bici Heidi, alla scoperta di cime minori, ma anche di lunghe camminate con gli sci in spalla per raggiungere i ghiacciai senza l’uso delle funivie… Ho così iniziato a sentire una connessione molto più profonda con la Montagna, le esperienze e le emozioni sono amplificate, anche grazie alla nuova sfida e alla fatica per raggiungerla, l’approccio più lento mi permette di assaporare ogni singolo istante con la Montagna e quando torno a casa ho sempre un sorriso incondizionato in viso. E la cosa più bella è che come io sono stata ispirata, così molte altre persone stanno scoprendo questo modo più coerente, ma anche molto più autentico di vivere la Montagna. Proprio su questo filone, insieme a amici e amiche, stiamo creando sotto il cappello e iniziativa del CAI nelle sezioni milanesi un gruppo di giovani che frequentano la montagna con questo nuovo approccio e parallelamente seguendo un percorso di sviluppo e avvicinamento a questa nuova prospettiva.

Un altro modo per contribuire alla causa a distanza è ad esempio, avere questo spazio per parlarne. Sono molto grata di aver avuto la possibilità di condividere queste riflessioni qui, e spero che qualcun altro/a si metta in gioco per scoprire in prima persona questo rapporto più rispettoso e così autentico con la Montagna.

 

(Fotografia in bianco e nero in copertina di Marta Corrà)

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